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La Mafia durante il fascismo e i "professionisti dell'antimafia"

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“Ci sono libri che ne contengono infiniti altri”.

mori Non potrei cominciare in maniera diversa la recensione al volume “la mafia durante il fascismo” dello storico inglese C. Duggan, pubblicato sul finire del 1986 e di recente ripubblicato da Rubettino; questo è l’incipit scelto da G. Savatteri, nella postfazione alla nuova edizione, attraverso cui si prova a dar conto delle ragioni che hanno fatto del volume di uno studioso anglosassone l’origine di una querelle ventennale, che continua ad animare in Italia gli intellettuali, i magistrati, i funzionari pubblici, i politici e l’opinione pubblica in generale.
 
Uno dei dibattiti più serrati e pieno di fraintendimenti conosciuto dalla nostra giovane storia repubblicana, trae origine dal commento all’opera, a firma di Leonardo Sciascia, apparso sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 e intitolato “i professionisti dell’antimafia”.

Troppo spesso, tuttavia, s’è provato a prendere posizione sul tema della lotta alla mafia, alla luce delle considerazioni svolte dallo scrittore di Racalmuto nel celeberrimo articolo citato, per sostenerle ardentemente o avversarle con sdegno, senza approfondire il momento genetico del pensiero di Sciascia: la lettura del testo di Duggan. Scopo di questa recensione è proprio quello di invitare, caldamente, alla lettura de “la Mafia durante il fascismo”.

Non si vuole affermare che l’elaborazione dell’autore del “Giorno della Civetta” in tema di mafia sia compiuta alla luce esclusiva di questo volume, tutt’altro.

Più semplicemente, leggendo il saggio in questione possono comprendersi le ragioni della rabbia di un intellettuale e uomo politico siciliano, il quale ha imparato ad odiare la mafia con tutte le sue forze avendone sperimentato l’assurda violenza e la silente penetranza e avendo constatato quante occasioni perdute e quanti pericolosi travisamenti sono avvenuti nel momento in cui lo Stato, o in generale coloro che a vario titolo sono chiamati a contrastare la mafia, si siano fatti trascinare nell’arena dello scontro politico.

Parafrasando un celebre detto, la lotta alla criminalità organizzata è come la costruzione di una strada: non c’è un modo di destra, di sinistra o di centro per farla. Solo la continuità del contrasto ne dovrebbe costituire l’elemento più significativo.

Io non voglio cedere alla tentazione, di prendere una posizione netta, come in questi anni si sono affrettati a fare tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito.

Non è mai facile scegliere, lo è ancora meno se la polemica pare cristallizzarsi sull’interpretazioneborsellino del pensiero di due “mostri sacri” come L. Sciascia e P. Borsellino, artificiosamente definiti come i duellanti di questa singolar tenzone sui professionisti dell’antimafia

Mi limito solo a ricordare come la vita e le opere di entrambi costituiscano, insieme e nei rispettivi ambiti di attività, un fulgido esempio per chi crede che la lotta alla mafia sia una grande e nobile sfida cui è chiamato a cimentarsi un uomo delle istituzioni, un intellettuale ma anche un semplice cittadino, soprattutto se siciliano.

A conferma di quanto scritto dallo stesso Sciascia, per il quale “la morte non è terribile per il non esserci più, ma per l’esserci ancora in balia dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restano” (tratto da Candido, Einaudi 1977), molti degli scontri sul tema, avvenuti negli ultimi anni, sono dovuti a travisamenti e letture ardite, frutto di interessate strumentalizzazioni.

Ma torniamo al volume: la lettura è preziosa per diverse ragioni che richiamo in modo stringato.
È preziosa per lo storico, in quanto in maniera asciutta e con copioso riferimento a “fonti di prima mano” si fornisce uno spaccato del regime fascista e del suo atteggiarsi in una terra come la Sicilia, la quale si trovò di fronte al nuovo quadro politico in condizioni di partenza,sociali politiche ed economiche, assai diverse, non solo rispetto al Nord e al Centro Italia ma anche nei confronti delle altre regioni meridionali. Risulta convincente ed innovativa la descrizione di una questione siciliana, che solo per certi e limitati aspetti può essere assimilata alla generale categoria “questione meridionale”.

È illuminante per gli odierni funzionari pubblici e, in particolar modo, per coloro che si apprestano a compiere un lungo cammino nei ranghi dell’Amministrazione dell’Interno: il testo fornisce un quadro preciso dei rapporti fra partito fascista e Stato fascista e delinea, in modo puntuale e senza eccessi, il carattere e l’operato del Prefetto Mori, che, certamente, costituisce una figura assai significativa nella storia della carriera prefettizia.

“La mafia durante il fascismo” mette in luce quanto il regime fosse attento alla comunicazione di massa, e quanto i sistemi di formazione del consenso risentissero allora, in modo non molto dissimile dall’età contemporanea, delle modalità e tecniche di divulgazione delle pubbliche attività.

La descrizione di un fenomeno complesso e storicamente difficile, quale è indubbiamente la mafia, risulta convincente se proviene da studiosi privi di pregiudizi ideologici e liberi da adesioni preconcette a precise impostazioni teoriche, che, spesso, finiscono per deformare la qualità della ricostruzione stessa.

Le testimonianze sulle diverse fasi della campagna del Prefetto di ferro in Sicilia, le notizie sullo scontro fra agrari conservatori e giovani fascisti oltranzisti, la ricostruzione delle operazioni di Polizia e dell’ “epico” assedio di Gangi, le spiegazioni sul quadro economico e sociale ed infine le testimonianze in merito al desiderio di “educare” i siciliani, costituiscono spunti di grande interesse e appunto, come detto in apertura, fanno di questo libro un testo che ne contiene infiniti altri.

Lungi dal volere nascondere quelle semplificazioni o lacune che esistono nella ricostruzione, la lettura rende edotti della necessità di andare a fondo, di capire perché a distanza di ottant’anni, ha ancora un senso studiare e valutare gli esiti della campagna contro la mafia, fortemente voluta dal duce del fascismo in Sicilia.

Che abbia un senso lo dimostrano i quasi mille arresti avvenuti nel corso del 2007 in Sicilia, previa contestazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (che nella loro enormità sono ben poca cosa rispetto agli 11.000 di cui parlano le fonti, in poco più di un biennio fra il 1923 e 1926).

Ammesso che quella mafia di cui parlava il Prefetto di Ferro, di cui parla Duggan e di cui discussero Borsellino e Sciascia, sia distante anni luce dalla contemporanea multinazionale del crimine chiamata “cosa nostra” o “mafia nuova” (e senza dimenticare che nella metà degli anni20 del secolo scorso lo stesso Mori e i più insigni politici dell’epoca erano soliti già distinguere fra una “mafia vecchia” ed una “mafia nuova”), rimane il fatto che è proprio la dubbia definizione della sua natura e la difficoltà, oggi come allora, di tracciare precisi confini rispetto ad un certo modo di fare politica, ad un certo modo di svolgere attività economiche private, ad un certo modo di amministrare i poteri pubblici statali e locali, che costituisce quantomeno un inquietante filo conduttore, nei confronti del quale quasi centocinquanta anni di storia unitaria non sono bastati per trovare una soluzione definitiva (semmai questa fosse possibile) o universalmente condivisa.

sciasciaQuesto è il nodo centrale della questione, che l’opera di Duggan, come rilevato da Sciascia, ha colto in pieno: l’attenzione va rivolta alla mafia in sé, ma anche a ciò che si pensava la mafia fosse (e che oggi si pensa che sia) e perché. Colmare la distanza fra l’essenza del fenomeno e la sua rappresentazione, costituisce, oggi come allora, il dato su cui sono chiamati a cimentarsi coloro che desiderano capire e contrastare, senza travisamenti e possibilità di strumentalizzazioni,il fenomeno mafioso e il suo retroterra.
 

9 gennaio 2008