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L’annullamento prefettizio della trascrizione del matrimonio omosessuale dopo l’intervento del Consiglio di Stato

gay Con le sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 del 26 ottobre 2015 il Consiglio di Stato (terza sezione) ha detto la sua parola (definitiva?) sulla questione della legittimità della trascrizione nei registri di stato civile dei matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso. In estrema sintesi, per i giudici di Palazzo Spada i matrimoni omosessuali non s’hanno da fare.
Le questioni affrontate nelle citate coeve sentenze, in particolare, sono due, e possono portare (come in effetti è accaduto davanti ad alcuni TAR) a soluzioni giurisdizionali dagli effetti contrapposti.

Innanzitutto, l’organo di giustizia amministrativa di secondo grado si è pronunciato in senso sfavorevole sulla questione della legittimità della trascrizione nei registri di stato civile dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero. Queste trascrizioni, quindi, non sono ammesse nell’ordinamento italiano.

 

Invero, le sentenze in commento non fanno che ribadire l’orientamento giurisprudenziale consolidato sul punto (tranne rarissime eccezioni: v. Tribunale Ord. di Reggio Emilia, decreto n. 1302 del 2011, e Tribunale Ord. di Grosseto, decreto del 03/04/2014, poi annullato in sede di reclamo dalla Corte d’Appello di Firenze il 19/09/2014), e si muovono nel solco di quanto già affermato dalla Corte di Cassazione, ossia che i componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, secondo la legislazione italiana, non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero (Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4184 del 2012).
La stessa Suprema Corte, nella pronuncia richiamata, ha fondato la propria statuizione su quanto asserito dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 138 del 2010 (poi ribadita nel 2014 con sentenza n. 170), che ha dichiarato infondata la questione di incostituzionalità di alcuni articoli del codice civile che contemplano esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna (e quindi ritenuti discriminatori nei confronti delle coppie omosex). L’Alta Corte ha statuito che la censurata normativa non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale; ciò sia perché essa trova fondamento nell’art. 29 Cost. (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”), sia perché la disciplina giuridica che ne deriva non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.

Il Consiglio di Stato ha anche sgomberato il campo – come già fatto dal giudice delle leggi – dalla introduzione nel nostro ordinamento di un presunto diritto al matrimonio omosessuale fondato su normative e pronunce giurisdizionali europee: ci si riferisce, cioè, all’art. 12 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (c.d. CEDU), e all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), i quali rinviano alle leggi nazionali per quel che concerne il riconoscimento del diritto di sposarsi e del diritto di costituire una famiglia, nonché alla decisone della Corte europea dei diritti dell’uomo del 24 giugno 2010 (caso Schalk e Kopf contro Austria), in cui si è affermato che il rifiuto di un ufficiale di stato civile di celebrare un matrimonio tra persone dello stesso sesso non contrasta con la CEDU, osservando che è rimessa ai legislatori nazionali di ciascuno Stato la decisione di consentire o meno il matrimonio omosessuale e quindi la decisione conseguente sulla trascrivibilità dello stesso (in senso del tutto analogo, vedasi anche le pronunce sui casi “Gas e Dubois contro Francia” e “H. contro Finlandia” del 13 novembre 2012). In definitiva, allo stato attuale, l’ordinamento europeo non pone alcun vincolo agli Stati membri di consentire o meno il matrimonio omosessuale.

Va, a questo punto, messo in evidenza come la questione della legittimità o meno della trascrizione del matrimonio in esame è stata esaminata dal Consiglio di Stato, così come dai Tribunali amministrativi regionali sin qui intervenuti nella vicenda, unicamente in via incidentale; ciò in quanto allorché si tratta di matrimonio, e degli effetti che conseguirebbero alla trascrizione di una sua celebrazione all’estero, si verte su uno status, il cui accertamento, ai sensi dell’art. 9, comma secondo, del codice di procedura civile e dell’art. 8, comma secondo, del codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104 del 2010 e ss.mm.ii.), è di competenza in via esclusiva dell’autorità giudiziaria ordinaria.
Invece, oggetto diretto del dictum nelle sentenze in commento è la soluzione della seconda questione in premessa accennata, vale a dire se sia legittimo o meno il provvedimento del prefetto di annullamento della trascrizione del matrimonio omossessuale, effettuata dal Sindaco quale ufficiale di stato civile. È su questo tema che le pronunce dei TAR sino ad oggi pronunciatisi sono state cassate dal Consiglio di Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha sanato l’intima contraddittorietà delle sentenze dei giudici di primo grado, che – se per un verso hanno perentoriamente sancito l’illegittimità delle trascrizioni de quo – parimenti hanno dichiarato illegittimo anche il provvedimento prefettizio che le ha annullate, producendo la conseguenza giuridica di rendere – nei fatti – produttivi di effetti provvedimenti (quelli sindacali) dagli stessi giudici ritenuti illegittimi.
I giudici di seconda istanza recuperano il bandolo della matassa muovendo dalla considerazione del tipo di relazione interorganica sussistente tra prefetto e sindaco in materia di stato civile.
Invero, ai sensi dell’art. 54, comma 3, D.Lgs. 18 ottobre 2000, n.267, il sindaco sovrintende alla tenuta dei registri di stato civile quale ufficiale del Governo, quindi soggiace alla potestà del prefetto di intervenire in caso di sua inerzia (potestà sostitutiva, prevista dal successivo comma 11), e deve attenersi, nell’esercizio delle sue funzioni, agli atti di indirizzo adottati dal Ministro dell’interno.
Lo stesso regolamento dello stato civile (D.P.R. n. 396/2000) all’art. 9 sancisce che “l'ufficiale dello stato civile è tenuto ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell'Interno, e che la vigilanza sugli uffici dello stato civile spetta al Prefetto”.
Nelle pronunce in esame, il Consiglio di Stato fonda sul richiamo alle norme appena citate la base per ricostruire in termini di sovraordinazione la relazione tra Ministro dell’interno (e prefetti che lo rappresentano a livello periferico) e sindaci nell’ambito della funzione dello stato civile; e da un modello organizzativo siffatto deduce anche la potestà del prefetto di annullamento dei provvedimenti contrari alla legge adottati dal sindaco, quale ufficiale di Governo.
Nell’avvalorare questa ricostruzione, viene fatto riferimento ad analoga posizione assunta da altra sezione (la V) del Consiglio di Stato nella sentenza 19 giugno 2008, n. 3076, che verte però sull’esercizio della diversa funzione di ordine e sicurezza pubblica, amministrata dal sindaco quale ufficiale di Governo in virtù del comma 1 del citato art. 54 D.Lgs. 267/2000.
Sostanzialmente ci si troverebbe dinanzi ad un’altra applicazione della teoria dei poteri impliciti, di derivazione giurisprudenziale prima americana poi europea, che nella versione “nostrana” dovrebbe atteggiarsi così: seppur il potere prefettizio di annullamento gerarchico degli atti illegittimi non è espressamente previsto per legge in questa materia, esso è implicitamente compreso nei poteri che caratterizzano la posizione di sovraordinazione del prefetto nei confronti del sindaco (arguibile da altre norme espresse nell’ordinamento in tema di direzione, di vigilanza e di sostituzione in caso di inerzia), e, anzi, li corrobora e rende effettivi, giacché se la potestà di annullamento non fosse riconosciuta al prefetto, i restanti suoi poteri (esplicitamente previsti) risulterebbero di vana efficacia.
La soluzione interpretativa adottata dal Consiglio di Stato, quindi, varrebbe a superare l’apparente (secondo detto giudice) preclusione per l’autorità amministrativa di intervenire su un atto di stato civile una volta che esso sia stato formato dall’ufficiale di stato civile, sia esso il sindaco o un suo delegato; questo divieto emergerebbe dal tenore dell’art. 95 del D.P.R. n. 396/2000, recante il regolamento di stato civile, che – inteso quale norma di carattere speciale – non consentirebbe l’intervento del prefetto, restando la potestà di eliminazione dell’atto illegittimamente iscritto o trascritto di competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria ordinaria adita (“Chi intende promuovere la … omissis … cancellazione di un atto indebitamente registrato … omissis … deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento”).
Invero, il sistema delineato dal regolamento di stato civile si mostra categorico nell’attribuire al giudice ordinario i poteri di cognizione, correzione e cancellazione degli atti di stato civile, tanto da non lasciar spazio né a interventi di riesame da parte di autorità amministrative gerarchicamente sovraordinate, né alla stessa possibilità per l’ufficiale di stato civile di agire in autotutela, una volta che l’atto si sia perfezionato mediante la sua registrazione.
Al fine di superare questo considerevole ostacolo interpretativo, la V sezione del Consiglio di Stato è costretta a ridurre la portata del riconoscimento di un implicito potere prefettizio di annullamento gerarchico, affermando che la competenza esclusiva del giudice ordinario opera solo in caso di “esistenza di atti astrattamente idonei a costituire o a modificare lo stato delle persone, tanto da imporre un controllo giurisdizionale sulla loro corretta formazione, con la conseguenza dell’estraneità al suo ambito applicativo di atti radicalmente inefficaci, quali le trascrizioni in parola, e, quindi, del tutto incapaci (per quanto qui rileva) di assegnare alle persone menzionate nell’atto lo stato giuridico di coniugato”.
In sostanza, i giudici di Palazzo Spada – dopo aver riconosciuto al prefetto, argomentando sulla scorta dell’art. 54 D.Lgs. 267/2000, un generale potere di annullamento degli atti di stato civile illegittimamente adottati dal sindaco, quale ufficiale di Governo – sono costretti a ripiegare, in forza della norma di carattere speciale sopra ricordata, su una più limitata potestà prefettizia di eliminazione giuridica degli atti di stato civile “radicalmente inefficaci”, o, come viene detto in altra parte delle sentenze in esame, dell’atto “inesistente o, comunque, abnorme, nel senso etimologico latino di fuori dalla norma”.
Se questo è il dictum del Consiglio di Stato sulla questione dell’ammissibilità del potere di annullamento gerarchico dell’atto di stato civile illegittimamente (rectius, in maniera abnorme, secondo l’uso “etimologico” adoperato in sentenza) adottato dal sindaco, nulla si dice, tuttavia, sulle concrete modalità della sua eliminazione, giacché se la soluzione potrebbe “tenere” sotto il profilo della espunzione dal mondo giuridico dell’atto viziato, più complessa è la questione della sua eliminazione fisica, visto che in questa materia l’atto assume giuridica esistenza necessariamente attraverso una materiale registrazione, e, finché questa permane, continuano ad esplicarsi i suoi effetti (anche meramente dichiarativi).
Il regolamento dello stato civile, invero, prevede che, laddove sia stato “indebitamente” registrato un atto, possa esserne chiesta la cancellazione al “tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta”, secondo la procedura di rettificazione di cui agli artt. 95 e 96 D.P.R. n. 396/2000, su ricorso dell’interessato ovvero su istanza del procuratore della Repubblica.
L’eventuale decisione dell’autorità giudiziaria che dichiara l’atto indebitamente registrato e ne ordina la cancellazione deve essere oggetto di annotazione a margine dell’atto viziato: in tal senso si vedano gli artt. 49, comma 1, lett. s), 69, comma 1, lett. i), 81, comma 2, 102 e 103 del predetto D.P.R. n. 396/2000, utilizzando l’apposita formula contenuta nel formulario approvato con decreto del Ministro dell’interno; ad analoga conclusione perviene lo stesso Ministero dell’interno a pag. 166 del suo “Massimario per l’Ufficiale di Stato Civile” (l’ultima edizione del 2012 è reperibile sul sito http://servizidemografici.interno.it).
Come potrà notarsi, i riferimenti normativi e di prassi citati non contemplano altra forma di cancellazione dagli archivi di stato civile di un atto indebitamente registrato che non sia quella disposta dall’autorità giudiziaria e che non sia effettuata mediante annotazione del provvedimento giurisdizionale sull’atto da cancellare.
Pertanto, considerata la funzione pubblicitaria assolta dai registri di stato civile, il provvedimento prefettizio di annullamento gerarchico dell’atto viziato, pur riconosciuto come valido dal Consiglio di Stato, non potrebbe esplicare la sua efficacia demolitoria dell’atto indebitamente registrato senza un intervento materiale sui registri ove l’atto è iscritto o trascritto.
Resta, quindi, il problema di come potrebbe adempiersi all’ordine di dare esecuzione alla sentenza rivolto dai giudici di Palazzo Spada all’autorità amministrativa, senza un ulteriore pronuncia del tribunale ordinario nell’ambito della procedura di rettificazione ex art. 95 D.P.R. n. 396/2000, il che renderebbe evidentemente vano, sotto il profilo sostanziale, lo stesso intervento in materia dell’autorità giurisdizionale amministrativa.
Queste considerazioni hanno fornito pretesto ai sindaci per non dare attuazione all’ordine prefettizio di annullare le trascrizioni indebitamente formate, suffragando la loro inerzia anche col ricorso al tassativo disposto di cui all’art. 453 del codice civile (“Nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall’autorità giudiziaria”). Il che ha indotto alcuni prefetti a procedere straordinariamente in via sostitutiva, mediante nomina di commissari ad actum o delegati, annotando i propri provvedimenti di annullamento sui registri di stato civile, con inevitabile forzatura del dettato normativo richiamato e della prassi sino ad oggi seguita negli uffici demografici comunali.
In conclusione di questo breve commento che affronta temi sinora inediti nel panorama giurisprudenziale amministrativo, può dirsi che le sentenze esaminate hanno sicuramente il pregio sia di ribadire (evidentemente ve ne era bisogno) la non configurabilità giuridica, senza un intervento ad hoc del legislatore ordinario, dell’unione matrimoniale tra persone dello stesso sesso nell’ordinamento vigente, anche sotto la forma di trascrizione di un matrimonio celebrato validamente all’estero, sia di definire più chiaramente il rapporto sussistente tra prefetto e sindaco con riferimento alla funzione di stato civile (ma analoga relazione si rinviene, ad esempio, in materia anagrafica), concepito in termini di sovraordinazione gerarchica, con la conseguenza pratica di salvaguardare e rendere effettivo quel principio di uniformità amministrativa cui la funzione di stato civile – pur collocata organizzativamente in maniera capillare in prossimità del cittadino – deve necessariamente attenersi per non rinnegare la sua stessa ragion d’essere.
Sotto il profilo dogmatico, tuttavia, residuano ombre nella soluzione interpretativa offerta che, anche nelle sue implicazioni pratiche finali, lasciano l’operatore incerto nell’applicazione della normativa di settore. Incertezza che non può essere, a parere di chi scrive, imputata alla ricostruzione ermeneutica effettuata dal Consiglio di Stato, quanto piuttosto ad una oggettiva lacuna del regolamento di stato civile, in cui la configurazione delle competenze e dei rapporti tra autorità statali (Ministro dell’interno e prefetti, in primis) e autorità comunali delegate allo svolgimento di una funzione amministrativa tanto delicata avrebbe meritato una più attenta ed espressa disciplina.
L’impressione, in altre parole, è che nel passaggio tra il previgente ordinamento di stato civile dettato dal Regio Decreto 9 luglio 1939, n. 1238, in cui le funzioni statali erano sostanzialmente concentrate nell’Amministrazione della giustizia (direttive impartite dal Ministero di grazia e giustizia, vigilanza dei procuratori della Repubblica, con potere – in alcuni casi – di rettificazione d’ufficio degli atti e di promozione delle altre rettificazioni decise dai tribunali, i cui uffici erano depositari di uno dei due originali dei registri chiusi a fine anno), e l’attuale regolamento dettato dal D.P.R. n. 396/2000 in cui le funzioni amministrative statali sono state affidate all’Amministrazione dell’interno, qualche sinapsi tra Stato e Comuni, e tra diverse amministrazioni dello Stato sia stata trascurata.
Sarà, pertanto, importante che il legislatore, già impegnato nell’esame di iniziative volte a disciplinare giuridicamente i legami affettivi omosessuali, si preoccupi anche di risolvere questa criticità di fondo, suscettibile di riproporsi in altre fattispecie c.d. “di confine” che, tuttavia, sono sempre più “interne” alla nostre comunità, operando una revisione dell’ordinamento dello stato civile dopo oltre 15 anni di sua (peraltro parziale) attuazione.

Scarica la sentenza n. 4897/2015