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L’ordine dei prefetti come Canone italico della bioarchitettura istituzionale

policleto doriforo002(Articolo del 20/12/2015)

L’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati offre, con il suo Rapporto su “La produzione normativa nella XVII legislatura” (n. 6 – aggiornato al 15 ottobre 2015), interessanti spunti circa l’evoluzione della natura del sistema di governance in Italia e quindi della relazione tra Istituzioni e comunità. Nel periodo 15.3.2013-15.10.2015 sono stati emanati n. 332 atti normativi di rango primario. Di tali 332 atti, 170 sono leggi, 95 sono decreti legislativi, 67 sono decreti-legge. Delle 170 leggi approvate (di cui il 31,76% composto da leggi di conversione di decreti-legge e il 37,06% composto da leggi di ratifica di trattati internazionali), l’81,76% è stato “di iniziativa governativa” (n. 139 su n. 170).

 

Sommando le 139 leggi d’iniziativa governativa con i 95 decreti legislativi ed i 67 decreti-legge, si ricava che circa il 91% (n. 301 su n. 332) degli atti normativi di rango primario è espressione della volontà, della sensibilità, della cultura, dell’agenda, della visione del governo.

Un altro parametro, riguardante, in particolare, la misura dell’intervallo temporale che intercorre tra il momento di rilevazione del bisogno da parte dell’Autorità pubblica e il momento di perfezionamento dell’intervento normativo, appare meritevole di attenzione: nella I legislatura della Repubblica i decreti-legge furono n. 29; nella VI furono 124; nella X Legislatura i decreti legge 433; nella XII 669.

La rilevazione induce a poter affermare che nella vita materiale della Repubblica italiana ha via via preso forma una nuova funzione, sconosciuta al testo e alle “categorie” della Costituzione scritta, ma in fondo compatibile con la stessa. Tale funzione, nota, da sempre, all’uomo e alle comunità sociali, si potrebbe definire “decisoria” e, numeri alla mano, è svolta oggi dal governo. La funzione decisoria sembra avere essenzialmente assorbito in sé le due dimensioni, legislativa ed esecutiva, che la Costituzione formale intendeva distinguere ed articolare su due diversi soggetti, Governo e Parlamento. Probabilmente la “liquidazione” dei processi e delle strutture di partito e l’esplosione delle forme “social” del controllo democratico hanno significativamente concorso a tale evoluzione.

I processi decisionali in Italia presentano dunque oggi una configurazione che è ancorata, sì, seppure in modo lasco – la necessità di tale ancoraggio ha certamente inciso, anch’essa, e fortemente, sui mutamenti intervenuti -, alla mappa dei ruoli disegnata dalla Costituzione, ma che al tempo stesso si caratterizza per il significativo operare, su di essi, delle variabili tipiche del dinamismo sociale.

L’insieme delle variabili sistemiche di varia natura (storiche, culturali, politiche, tecnologiche, etc.) entro cui si sviluppano le viscose forme della governance potrebbe assimilarsi ai vincoli di necessità e di opportunità che l’ecosistema, locale e globale, attualmente e prospetticamente pone a chi si accinge alla progettazione di una casa.

Di tali variabili sarà bene tenere conto nell’affrontare l’anelato rinnovamento della Pubblica Amministrazione italiana, considerata anche l’importante occasione costituita dalla legge n. 124 del 7 agosto 2015 (cd. legge Madìa), di riforma delle organizzazioni pubbliche.

Propositi ed ipotesi di “affinamento” dell’azione pubblica rispetto alle specificità e alle complessità delle vicende sociali operano dunque entro numerosi ed importanti  vincoli sistemici, peraltro essi stessi in continua trasformazione. Ignorare tali vincoli e il loro dinamismo e formulare quindi fredde, astratte e statiche ipotesi di organizzazione amministrativa, sostenibili soltanto nell’asetticità degli ambienti e dei documenti dei laboratori ministeriali, per poi accontentarsi di attribuire, dall’interno dei medesimi laboratori (in fondo in fondo essi stessi tutt’altro che asettici), le colpe della devianza diffusa a quel manipolo di mafiosi e briganti, ladri ed evasori, concussori e concussi, che qualcuno chiama popolo italiano e verso il quale il mondo intero nutre un’antica ammirazione, è un déjà vu che sarebbe preferibile evitare, non soltanto per il bene dell’Italia ma per il bene di tutti.

“L’aspirazione dominante era verso la giuridicità pura, il decantamento della materia da ogni contaminazione storica o politica … Oggi non tutti, ma molti di noi, sentiamo materia preziosa ma vuota questo diritto così decantato, e ci chiediamo se le belle costruzioni formali, perfette, ineccepibili, ma mai saggiate nella rispondenza alla vita, servano ad altro che alla gioia dell’intelletto”, sottolineava Arturo Carlo Jemolo, nel 1954, nelle sue “Lezioni di diritto ecclesiastico”.

”Noi siamo troppo spesso abbacinati da quel che avviene nello Stato, che è un ordinamento autoritario, dove il diritto si deforma in comando e dove l’evento terribile della sanzione è una sorta di appendice normale del comando, tanto normale da farla ritenere sua parte integrante” (Paolo Grossi, “Prima lezione di diritto”, 2003).

"Identificandosi il diritto in una norma non autorevole ma autoritaria che pioveva dall’alto sulla comunità dei cittadini ed avendo il diritto una funzione rigorosissima di controllo sociale, l’ordine giuridico ne risultò come ingabbiato. Era diritto solo ciò che lo Stato voleva che fosse il diritto: le forme in cui questo si manifesta nell’esperienza … erano immobilizzate in una sorta di piramide, cioè in una scala gerarchica dove una funzione attiva era riserbata unicamente alla fonte di grado superiore, la legge, restando le fonti subalterne (per esempio, la vecchia matrice dell’ordine giuridico prerivoluzionario, la consuetudine) relegate in posizione ancillare senza nessun ruolo incisivo; il diritto, proprio perché voluto dall’alto e in base a un progetto disegnato in alto dai detentori del potere, era inevitabilmente destinato a formalizzarsi separandosi dai fatti sociali ed economici in continuo divenire ... Al mondo dei fatti è legittimato a guardare solo il legislatore, che s’identifica sempre con il detentore del potere; è lui e unicamente lui che, maneggiando cultura morale giustizia politica economia, trasformerà tutto in diritto … E il diritto, divenuto una dimensione rigida e formale, si scosta e si separa dal sociale e dalla sua insopprimibile storicità … Il diritto dello Stato esige la scrittura, deve diventare testo: perché è autoritario, perché si concreta in un comando … Non insegniamo forse noi, ancora oggi, ai nostri studenti novizi che astrattezza, generalità, rigidità sono i caratteri della legge? E non insegniamo che il civis, questo povero interlocutore, vera vittima immolata del potere, ne è il destinatario passivo?" (Paolo Grossi, “Globalizzazione, diritto, scienza giuridica”, 2002).

 

Sembra d’altra parte di potersi constatare che le aspettative sociali di “affinamento” dell’azione pubblica – le due dimensioni del regolare e dell’amministrare si fondono anch’esse, nella sostanza, in un’unità assorbente, socialmente inscindibile - presentano oggi una consonanza senza precedenti con le consapevolezze e i propositi fattivamente coltivati dai vertici della governance politica del Paese.

“Ogni territorio ha la sua peculiarità, la sua domanda economica e sociale, mentre oggi la risposta della Repubblica tende ad essere omogenea, con lo stesso modello organizzativo ripetuto automaticamente”: così scrivevano i Vertici di Governo, Regioni e Comuni nel “Protocollo Italia Semplice”, sottoscritto il 5 giugno 2014.

Se da un lato aprono il cuore alla speranza, dall’altro tali condizioni di “idem sentire”, di straordinaria consonanza, cioè, tra società e Stato circa il cambiamento da realizzare nel modello nazionale di Pubblica Amministrazione, renderebbero ancor più grave, ove frustrate da progettisti “dissonanti”, la delusione e ancor più dolorosa la caduta.

Qualche altro elemento, tra i tanti, va tenuto in considerazione e riguarda i materiali a disposizione, un dato/vincolo assai rilevante, in passato anch’esso spesso ignorato dai progettisti di laboratorio.

“Nel 1861 gli eredi di Cavour scelsero come è noto la continuità con la tradizione amministrativa sabauda, riproducendo in particolare nell’organizzazione amministrativa del nuovo Stato unitario le scelte di fondo che avevano ispirato nel 1853 la riforma cavouriana del Regno di Sardegna ... disegnando un’organizzazione basata sui principi chiave dell’uniformità e della centralizzazione, di prossima derivazione napoleonica” (Guido Melis, “La Nascita dell’Amministrazione nell’Italia Unita”, 2009).

“Uniformità” e “centralismo”, ricorda dunque Melis, sono tratti formali e sostanziali dominanti dell’esperienza di Stato che ha caratterizzato la vita del Paese, dentro e fuori dalle pareti degli edifici pubblici, nelle grandi città come nei piccoli paesini, dal tempo dell’unificazione di matrice sabauda a tutt’oggi.

La debolezza nella legittimazione sociopolitica e culturale a monte del processo di unificazione di matrice piemontese si tradusse dunque in un progetto di architettura istituzionale avente come fine la cancellazione dei tratti italici, la normalizzazione dell’eccezionalità made in Italy, l’abrogazione del genius loci, l’omologazione. Il successo, invero impossibile, di tale terrificante disegno avrebbe configurato, opportuno qui rilevarlo, un delitto contro non soltanto la nazione italiana ma contro l’umanità intera. Tale programma formale, se pure fallito in quanto ampiamente disatteso nella sostanza, non ha tuttavia mancato di svolgere rilevanti effetti, contribuendo significativamente a caratterizzare, sebbene in senso di reciproca ostilità, l’esperienza della relazione tra Stato e nazione, tra paese legale e paese reale. La forma mentis degli abitanti della Repubblica, quale formatasi per effetto della sofferta convivenza tra gli italiani e il modello Cavour, non potrà essere cambiata repentinamente, né, di certo, abrogata per legge. 

La congiuntura odierna – che, come si è detto, appare di straordinaria consonanza tra vertice politico e comunità nazionale – sembra poter costituire la premessa perché sia edificata una casa confortevole: affinché ciò possa essere, tuttavia, il progetto dovrà impostato secondo nuovi princìpi, forse utilmente derivabili dalla Bioarchitettura.

Come potrebbe, d’altronde, un apparato pubblico segnato dalla diffidenza, dall’uniformità, dal centralismo e dall’automatismo partorire e allevare una Pubblica Amministrazione che sia intelligente, aperta, semplice, dinamica e quindi capace, da Rovigo ad Agrigento, di risposte “adeguate” e “differenziate” in ragione delle specificità sociali?

“Ancora una tragedia della povertà. A Casalnuovo, comune ai confini con Acerra, Eduardo De Falco, pizzaiolo, si toglie la vita dopo aver ricevuto un verbale da 2000 euro nel negozio che gestiva. L‘ispettorato del lavoro aveva trovato a lavorare sua moglie senza regolare contratto. Ma quale contratto, volevano costoro? Se si gira la Campania in lungo e in largo i lavoratori con normale contratto si contano sulle punte delle dita. In questa nostra terra martoriata, dove tanti diritti ci vengono negati, dove tanta gente arranca per mettere la cena a tavola, non si può condannare un commerciante in tempo di piena crisi economica, politica, morale, perché sua moglie, con lui sta portando il peso della giornata dandogli una mano. Diventa sempre più insopportabile per la povera gente questo modo schizofrenico di intendere il rapporto del cittadino con lo Stato. Uno Stato attento fino alla pignoleria a riscuotere i suoi diritti ma lento fino allo spasimo a fare il suo dovere. Uno Stato che allarga sempre di più il fossato tra palazzi e cittadini e dove si sposta l’asse del discorso su presunti diritti che dovrebbero avere la precedenza nell’agenda politica. Duemila euro per chi non ha problemi economici sono il conto di una serata con gli amici. Per tante famiglie sono un patrimonio. Non si può punire un piccolo commerciante per un cavillo. Possibile che nelle nostre terre debba arrivare l’esercito per frenare il mortale sversamento e l’ incenerimento dei rifiuti industriali perché non si riesce - o non si vuole - arrivare al mandante e poi si è così zelanti con un onesto commerciante? Si poteva permettere, Eduardo, un garzone che lo aiutasse? Avrebbero potuto i magri introiti del negozio mantenere due famiglie? Che cosa avrebbe dovuto fare? Chiudere la bottega come già tanti suoi colleghi? Ecco che, per qualche ora, la moglie dopo aver svolto i lavori in casa, corre ad aiutarlo. I due si vogliono bene e sanno che debbono stringere i denti. Sono tempi difficili, occorre darsi da fare. Occorre stare uniti. Eduardo è il sintomo di un malessere che assolutamente non può e non deve più passare inosservato. Se tante persone, per non morire, sono costrette a rispolverare l’antica arte di arrangiarsi, è chiaro che debbono essere aiutate non penalizzate. Non esasperiamo la povera gente. Chiediamo, invece, al Signore la grazia di metterci un poco nei loro panni” (“Quale Stato in quella multa”, don Maurizio Patriciello, 21 febbraio 2014, articolo pubblicato da “Avvenire” all’indomani del suicidio di Eduardo De Falco, pizzaiolo di Casalnuovo che aveva ricevuto un’ispezione da parte del Ministero del lavoro).

 

Non un atto, non un “tratto”, di penna possono trasformare la Pubblica Amministrazione. Orientare alla differenziazione attraverso un decreto costituisce un’operazione evidentemente impossibile, una insanabile contraddizione in termini. Un sistema di autorevoli intelligenze può però disegnare un percorso possibile.

 “La legge è uguale per tutti”: per quanto costantemente contraddetto dalla realtà (basti ricordare che, in circostanze pur analoghe, ciascun tribunale italiano ha il diritto di esprimere, ed esprime, un’interpretazione autonoma della legge) e, in fondo, dalla stessa Costituzione (basti pensare alle differenziazioni previste nell’articolo 3 e nell’articolo 5, in funzione delle diversità sociali sostanziali), questo mito, esaltato dal modello cavouriano di Pubblica Amministrazione, ha segnato, e segna, la vita del Paese, influenzando percezioni, relazioni, paradigmi culturali e comportamenti operativi, dentro e fuori l’edificio pubblico. Senza la circolare ministeriale il dirigente pubblico  - dirigente-che-non-dirige - tendenzialmente non ascolta, non analizza, non intraprende, non interviene, non-decide: la società italiana, orientata alla sopravvivenza, ha sviluppato schemi e comportamenti consequenziali, maturando un originalissimo e solido know how (“L’Italia: una società senza stato?”, Sabino Cassese, 2011). Se dal 1861 gli schemi culturali, logici e operativi della Pubblica Amministrazione italiana sono quelli  - dell’uniformità, del centralismo, dell’apatia (sine ira ac studio, sottolineava il massimo teorico della burocrazia, Max Weber) - tipici della “burocrazia”, come fare per trasformarla in una casa calda e confortevole?

Prima di prefigurare ipotesi esplorabili, appare importante, forse anche urgente (l’ansia del facere e la tentazione del decreto costituiscono uno dei pericoli da cui rifuggire) escluderne alcune, in quanto palesemente infeconde. Non sarà attraverso la norma formale scritta - eventualmente un decreto attuativo della legge 124/2015 - che la Pubblica Amministrazione perderà le sue caratteristiche di uniformità e centralismo e cesserà dunque di essere “Burocrazia”. In questo errore di metodo, nel 2001, cadde il Parlamento italiano quando modificò l’art. 118 della Costituzione: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella gestione delle funzioni amministrative: a Catania, ad Aversa, a Macerata, a Savona nessuno se ne è accorto, né dentro né fuori degli uffici pubblici. E d’altronde, come avrebbe potuto un atto scritto trasformare, da solo e d’amblais, i convincimenti e i comportamenti che decine di milioni di italiani coltivano da oltre un secolo?

Armati della consapevolezza che nel tragitto verso l’Italia semplice possono esserci utili salti ma non scorciatoie, torniamo a chiederci: quale può essere, tenuto conto delle condizioni del terreno, dei materiali disponibili e dell’esposizione al sole e ai venti, un percorso possibile verso la meta? Al paziente lettore che ha voluto finora condividere l’ampia premessa proposta si è ora debitori di una prospettiva operativa che sia chiara e, se possibile, semplice anch’essa.

Ebbene, se il dinamismo intelligente e territorialmente differenziato è un tratto caratterizzante ed insopprimibile del genius loci italiano (le opere dei distretti industriali e del patrimonio storico-artistico nazionale lo manifestano), la via che qui si prefigura per il viaggio da farsi verso l’Italia semplice potrebbe forse essere quella dei Prefetti. Il Prefetto, cioè, come punto di “centro”, unico e straordinario, che congiunge le diverse parti, altrimenti antagoniste e conflittuali, del sistema Italia. Il Prefetto come centro di gravità mobile che assicura, secondo coerenti princìpi di dinamismo intelligente e territorialmente differenziato, l’equilibrio tra le forze esterne che agiscono sul sistema stesso. Il Prefetto, come Istituzione legittimata sia nell’ambito della Pubblica Amministrazione che in ambito “social”. Così come il centro appartiene a tutte e a ciascuna delle aree che provvede ad unire, il Prefetto, se “riconosciuto”, in origine, da tutti e da ciascuno, a Roma come sul territorio (art. 8 lett. “f” legge 124/2015: “individuazione della dipendenza funzionale del prefetto in relazione alle competenze esercitate”), appartiene, ed apparterrebbe, anch’esso, sebbene mai del tutto e mai in via esclusiva, a ciascuno dei sottosistemi, a quello del territorio e a quello dello Stato, a quello della Politica e a quello dell’Amministrazione, a quello della comunità e a quello dell’apparato, a quello della generalità e a quello della specificità, a quello della civil law e a quello della common law, a quello della finesse e a quello della geometrie.   “Sostenni la tesi secondo cui nell’individuare il criterio per eleggere il Capo dello Stato, bisogna operare una netta distinzione tra la sua figura, che rappresenta l’unità politica del Paese, e il Presidente del Consiglio, che rappresenta la maggioranza che governa. Ne deriva che il partito che intende far eleggere Presidente della Repubblica un suo esponente non deve chiedere puramente e semplicemente agli altri partiti di aderire alla sua proposta, ma creare le condizioni di una scelta condivisa … Infatti l’elezione della prima carica dello Stato non può che essere, sempre e comunque, un momento alto di legittimazione della Repubblica …” (Ciriaco De Mita, “La storia d’Italia non è finita”, Guida, 2012). Mutatis mutandis, il metodo adottato nei momenti più alti della Politica repubblicana per l’elezione del Capo dello Stato potrà coerentemente caratterizzare anche i processi di nomina dei Prefetti, quali statisti del territorio di cui la pianta della Nazione potrà nutrirsi, anche in una logica di formazione di classi dirigenti, in una stagione di ritrovata coesione e fiducia.

L’ordine dei Prefetti, dunque, come Canone italico di bioarchitettura istituzionale.

“Questo accenno vale per la terza causa di inferiorità nostra, cioè la uniformità legislativa, specialmente nel campo economico. Questo errore iniziale del regno italiano è riconosciuto da tutti, ma non è affatto rimediato. Le leggi non sono creazione aprioristica di cervelli – siano pure come quello di Giove, dal quale uscì Minerva -; sono invece, e hanno un vero valore, un processo di realtà vissuta e concreta che, in un determinato momento critico, trovano la loro espressone morale, legale e la loro formula scritta. Questo processo dinamico della realtà economica e amministrativa dovrebbe essere lasciato all’adattamento locale: come avviene in Inghilterra, come in parte era nella vecchia Austria, come, per il sistema federativo di un tempo, aveva il suo naturale fondamento anche nella Germania di ieri. Invece l’Italia prese per modello la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia repubblicana, dove la vita centralistica di Parigi assorbe e polarizza tutta la Francia, e dove la tradizione storica e l’ampio respiro economico assorbono le energie di provincia e spesso le annullano. Così le leggi scritte, stilizzate fino all’ultima virgola, i regolamenti di esecuzione sino ai più minuti dettagli, partono dal centro, dall’unità di dominio e di interessi” (Luigi Sturzo, 18 gennaio 1923, “Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno”).

Sembra acconsentire alla prospettiva del Canone italico il disegno proposto dalla legge n. 124 del 7 agosto 2015, di riforma della Pubblica Amministrazione, in particolare nel prevedere (art. 8) una “sede unica” per gli Uffici territoriali dello Stato (“confluenza nell'Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici  periferici  delle  amministrazioni  civili  dello  Stato”). Confluenza organizzativa ma soprattutto “sede unica” rendono il prefetto, oltre che decisore (“attribuzione   al   prefetto    della    responsabilità dell'erogazione dei servizi ai  cittadini,  nonché  di  funzioni  di direzione e coordinamento dei dirigenti degli  uffici  facenti  parte dell'Ufficio  territoriale  dello  Stato,  eventualmente   prevedendo l'attribuzione allo stesso di poteri sostitutivi”), figura centrale e apicale di un insieme di Pubbliche Amministrazioni che scopre, finalmente, di dover essere comunità sociale e quindi Istituzione. Nei laboratori d’impostazione cavouriana era stata finora ignorata la rilevanza dello stare materialmente “vicino” ma forse tale trascuratezza può bene intendersi se collocata all’interno della generale, originaria e pressoché completa dissonanza che ha finora caratterizzato il rapporto, meglio: il non-rapporto, tra lo Stato e l’Italia reale, nella quale stare fisicamente “vicino” significa anche, da sempre, appartenere allo stesso luogo, e alla medesima comunità, condividere valori, coltivare sentimenti e relazioni di lealtà e fiducia, coordinare comportamenti.““In contrapposizione con gli insediamenti urbani del Centro-Nord, l’habitat del feudalesimo mediterraneo è caratterizzato, già nell’alto medio evo (secoli X-XI), dalla concentrazione delle curtes e della casae coloniciae disperse tardo romane, in villaggi accentrati e fortificati collocati su sommità di colli o su speroni di versante … Questo habitat del feudalesimo “mediterraneo” non si modificherà più … [N]ell storia degli uomini si sono sempre intrecciati, indissolubilmente, due opposti atteggiamenti rispetto a chi detiene il potere: ci sono coloro i quali (pochi) preferiscono obbedire a norme oggettive, piuttosto che all’autorità ed all’arbitrio di persone fisiche; e coloro i quali (ma costituiscono la maggioranza) sono convinti che a comandare non possano (e quindi non debbano) essere le prescrizioni astratte, ma le persone concrete in grado di farsi obbedire …  Questo modo di pensare si traduce in un ordinamento (per sé stesso del tutto rispettabile) fondato principalmente sul vincolo “personale” … Nelle civiltà dell’evo antico (“mediterranee”: greco-latina e semitico-islamica) e nel sistema medievale (signorile-vassallico-feudale) probabilmente predominò il modello “personale” dell’autorità. Quello “impersonale” invece emerse nella civiltà europea “moderna” (germanica, franco-anglosassone) … Le costituzioni “moderne” derivano tutte più o meno da questa radice, perché il modello fu esportato nel mondo dall’Europa … Così che oggi nessuna “scuola”, nessuna corrente scientifica o ideologica si dedica seriamente a studiare il tipo alternativo di ordinamento, implicito nell’idea e nella prassi del “comando personale”. Questo assetto, infatti, venne degradato e svilito come forma istituzionale primitiva, anteriore all’avvento del più evoluto e civile “primato del diritto”. Il risultato di questa specie di “colonizzazione” politico-intellettuale fu che in quasi tutto il “terzo mondo” – ed anche nell’area “mediterranea”, di cui gli italiani fanno parte – vennero adottate mediocri copie del modello costituzionale europeo, fondato sull’impersonalità del comando, per il quale mancavano tuttavia i presupposti culturali e antropologici …” (Gianfranco Miglio, “L’Asino di Buridano”, 1999).

“I Greci, come tutti gli altri popoli indoeuropei, erano divisi in associazioni familiari o gentilizie già prima della loro emigrazione nelle loro sedi storiche, e in queste portarono tale loro organizzazione. Queste associazioni si chiamavano ... confraternite ... e credevano di discendere da un capostipite comune. Il loro scopo originario era quello della difesa della vita, dei beni e dell'onore dei componenti … e il nesso della fratria era considerato come garanzia della vita sociale e statale, onde è che Omero chiama ‘senza fratria’ chi desidera la guerra civile (Iliade, I, 63). Nell'epoca del nomadismo i componenti della stessa associazione si spostavano certamente insieme, e quando fondarono sedi stabili, si stanziarono gli uni in prossimità degli altri. Anche in guerra i membri della stessa fratria combattevano accanto” (Voce “Fratria”, Enciclopedia Treccani on line).

L’Ordine dei prefetti come fondamento polisemico del Canone italico.

Ordine, cioè, come disposizione intelligente di fatti e situazioni sociali, coerenti con la loro natura e collocate, le une rispetto alle altre, secondo un criterio organico e ragionato, rispondente a fini di praticità, di opportunità, di armonia. Ordine come associazione i cui membri coltivano una comune identità di fini, di ruolo, di reputazione, di sentire, di comportamento, di regole. Ordine, ancora, come decisione ragionevole e territorialmente calibrata, dunque come Ordinanza prefettizia. 

“La radice etimologica del potere di ordinanza ascende al sostantivo ‘ordine’. In questo senso, con ‘ordinanza’ si designa lo strumento normativo mediante il quale viene veicolato un ordine da parte dell’autorità amministrativa. Ossia un precetto immediatamente imperativo contenuto in un atto diverso dalla sentenza o dalla legge. Questa prima accezione di ‘ordinanza’ ne caratterizza il significato in tempi in cui l’autorità assoluta – ossia il monarca – assommava su di sé i poteri legislativo, giurisdizionale e amministrativo. Con ‘ordinanza’, pertanto, si faceva riferimento ad un ordine del monarca che né definiva un processo, né innovava l’ordinamento con una legge, ma che specificava in capo ad un destinatario ben determinato un precetto nell’esercizio di quella che oggi siamo soliti definire funzione amministrativa. In ragione del suo carattere soggettivo ed unipersonale, con ‘ordinanza’ si intende oggi un provvedimento amministrativo adottato da un organo amministrativo monocratico nell’esercizio di una funzione amministrativa.” (Nobile R., “Le ordinanze del Sindaco in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana”, Lexitalia.it, 2/2009).

Il Canone di Policleto non portò la scultura greca a rinunciare al rigore, alla precisione e alla simmetria ma ne consentì tuttavia un epocale avanzamento, perché rigore, precisione e simmetria, liberi dal bisogno di adesione omologante alle quadrettature del predefinito “reticolo” egizio, vennero a trovare, attraverso la proporzionalità tra le membra della singola figura scolpita, coerenza con il dinamismo della vita e con la vita stessa. 

Nell’Italia di Giotto e dell’Unesco, del “made in Italy” e dei distretti industriali, delle Indicazioni geografiche e dei campanili, simmetria ed armonia del Canone italico potranno essere dunque ricercate e tessute dai Prefetti, nel tempo, e con il crisma del kairòs, attraverso la reductio ad unum delle Amministrazione sul territorio (e pluribus unum), “sul” territorio e “tra” i territori, con una sapiente miscelazione del viriliter e del molliter: un’opera da realizzare parà mikròn, a poco a poco, con delicatezza e accuratezza, a “regola d’arte”.

 

Dario Ciccarelli*

 

*Dario Ciccarelli (Napoli, 1969), Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., autore di “Bioarchitettura istituzionale” (ed. Giannini, Napoli, 2002) e de “Il Bandolo dell’Euromatassa” (ed. Il Giglio, Napoli, 2014) è un dirigente statale (1° corso-concorso della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione). Sui temi della riforma della Pubblica Amministrazione ha pubblicato: “Dall’uniformità alla differenziazione. Dalle circolari ai ‘Biodirigenti zigzag’ ”  (“Nuova Etica Pubblica”, Rivista dell’Associazione “Etica PA”, n. 4, luglio 2015, www.eticapa.it) e “Sulla Via dei Prefetti-sole verso un’Italia Semplice” (“Nuova Etica Pubblica”, Rivista dell’Associazione “Etica PA”, n. 5, dicembre 2015, www.eticapa.it). Le posizioni espresse nell’articolo riflettono pensieri del tutto personali dell’autore.