Questo sito utilizza cookies tecnici e di terze parti per funzionalità quali la condivisione su social network e/o l'analisi statistica del comportamento degli utenti online. Chiudendo questo banner acconsenti all’uso dei cookies. Se non acconsenti all'utilizzo dei cookies di terze parti, alcune di queste funzionalità potrebbero essere non disponibili. Per maggiori informazioni consulta la pagina Note legali e privacy.

Trieste_Piazza_Unita.jpg

Anagrafe 2.0. La trasformazione del servizio anagrafico dopo le leggi di semplificazione e per la crescita - Prima parte

schedarioQuesto è il diario di un anno vissuto pericolosamente.
In primis dagli impiegati delle anagrafi comunali, spesso evocati a paradigma della routinaria vita del pubblico travet (contendendo, nell’immaginario collettivo, questo ruolo al funzionario del catasto; ma anche lì, ormai, quanto si erra!), sottoposti di questi tempi ad una gragnuola di provvedimenti legislativi, che – sotto la spinta delle esigenze di semplificazione dei rapporti cittadino-p.a. e di crescita del Paese – stanno producendo una vera e propria rivoluzione nel modus operandi (e, come vedremo, nell’essenza) degli uffici demografici.
Il servizio anagrafico, nell’ordinamento giuridico italiano, ha una lunghissima tradizione.
La prima disciplina organica dell’anagrafe risale al Regio Decreto 31 dicembre 1864, n. 2105, che cercò di mettere ordine nella gestione del servizio tra le anagrafi già presenti nei vari Comuni, ma che lasciò agli enti locali la facoltà di istituire o meno il servizio, assegnando al Prefetto una funzione di vigilanza, tuttora esercitata.

Con la Legge 20 giugno 1871, n. 297, successivamente al censimento generale dello stesso anno, fu sancita l’obbligatorietà della tenuta del “registro anagrafico”.
Con il Regio decreto del 21 settembre 1901, n. 445, ed il successivo del 6 maggio 1906, n. 224, si ebbe la prima grande trasformazione del servizio anagrafico, i cui scopi – da meramente statistici quali erano stati inizialmente congegnati – divennero più propriamente giuridici con l’obbligo di registrazione della popolazione stabilmente residente.
La funzione statistica venne meglio precisata con l’istituzione dell’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT), affidata alla Legge 9 luglio 1926, n. 1162, ed al successivo Regio Decreto Legge 27 maggio 1929, n. 2132, che – nel definire il ruolo dell’istituto di statistica nell’ambito dell’ordinamento anagrafico – puntualizzò come i registri anagrafici dovessero garantire una fotografia della popolazione residente e del suo movimento, in guisa tale da rispecchiare fedelmente la situazione di fatto accertata, secondo i crismi della legge, dagli ufficiali d’anagrafe.
Queste finalità potevano essere raggiunte solo affidando il servizio alle entità amministrative più vicine alle situazioni da verificare (i Comuni), e preservando le esigenze di uniformità nella applicazione della legge e delle direttive governative, e nella gestione del servizio, mediante la funzione di vigilanza attribuita ai rappresentanti dello Stato sul territorio (i Prefetti).
 
***
 
L’attuale disciplina generale dell’anagrafe è contenuta nella Legge 24 dicembre 1954, n. 1228, e nel suo regolamento di esecuzione (il D.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136, è stato soppiantato dal D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, attualmente in vigore).
L’impianto fondamentale della legge anagrafica del 1954 è rimasto inalterato per quasi sessant’anni (da qui, forse, l’immagine di scarso dinamismo affibbiata alla burocrazia anagrafica, come dicevasi in premessa), restando sostanzialmente indenne ai profondi mutamenti che hanno caratterizzato la società italiana in questo mezzo secolo, primi fra tutti l’importante ondata migratoria dai Paesi meno sviluppati e il processo di integrazione europea.
Gli effetti di questi fenomeni socio-giuridici si sono fatti sentire maggiorente sulla normativa di dettaglio alla legge anagrafica (rilevanti, infatti, le modifiche al D.P.R. 223/1989 in materia di obblighi anagrafici e registrazioni degli stranieri), ma soprattutto con l’introduzione di corpi legislativi non strettamente inerenti al servizio anagrafico, pur se a questo necessariamente connessi; in particolare, la Legge 27 ottobre 1988, n. 470, ha introdotto una disciplina specifica per l’anagrafe degli italiani residenti all’estero; il Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ha raccolto in testo unico le disposizioni concernenti l’immigrazione e la condizione dello straniero, successivamente soggette a plurime modifiche e integrazioni; il Decreto Legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, nel dare attuazione ad una specifica direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, ha disciplinato, con norme aventi ricadute nell’operato degli ufficiali d’anagrafe, il diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
 
***
 
Ma veniamo al tribolato diario di quest’anno.
Il 2012 è iniziato il 1° gennaio (ça va sans dire) con l’entrata in vigore delle modifiche, introdotte con l’art. 15, comma 1, della Legge 12 novembre 2011, n. 183 (legge di stabilità 2012), alla disciplina dei certificati e delle dichiarazioni sostitutive contenuta nel “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa” (TUDA) di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Il citato art. 15 ha riscritto quasi interamente, ivi inclusa la rubrica, l’art. 40 del TUDA (era uno dei più brevi di detto testo normativo), sancendo il principio secondo cui i certificati rilasciati dalla p.a. in ordine a stati, qualità personali e fatti sono validi e utilizzabili solo nei rapporti tra privati.
Il richiamato principio ribadisce con maggiore perentorietà quanto, invero, già presente, dal lato attivo (ossia della p.a. richiedente il certificato), nel TUDA con riferimento al divieto, per ciascuna p.a., di “richiedere atti o certificati concernenti stati, qualità personali e fatti che risultino elencati all\'art. 46, che siano attestati in documenti già in loro possesso o che comunque esse stesse siano tenute a certificare” (v. art. 43, nella formulazione originaria).
La nuova formulazione dell’art. 40 del TUDA, tuttavia, al fine di rafforzare l’effettività del principio e raggiungere l’obiettivo della c.d. “decertificazione”, affronta il problema anche dal lato passivo (vale a dire della p.a. a cui viene chiesto il certificato), sancendo l’obbligo di apporre sul certificato rilasciato (evidentemente per la produzione solo a soggetti privati) una espressa dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”.
Il mancato rispetto di quest’obbligo viene sanzionato, sempre a seguito delle novelle contenute nel citato art. 15, sia con la pena della nullità del certificato rilasciato privo della dicitura, con le connesse conseguenze in termini di vizi derivati dell’atto emesso nel procedimento amministrativo in cui il certificato è stato acquisito e di risarcimento del danno subito dal soggetto cui sia stato rilasciato l’attestato nullo, sia configurando espressamente quale violazione dei doveri d’ufficio il rilascio di certificati privi della menzionata dicitura (art. 74 TUDA, nel testo modificato e integrato dall’art. 15).
La nuova disciplina, quindi, che pure si muove su un solco già segnato da precedenti interventi normativi “decertificativi”, è stata vissuta come particolarmente afflittiva dagli uffici anagrafici, tra i soggetti certificatori per eccellenza nel nostro sistema amministrativo, i quali – più che apprezzare l’effetto di notevole abbattimento delle richieste di certificazioni determinato dalla norma – hanno concentrato la loro attenzione sulle misure sanzionatorie, comminate in caso di mancato rispetto del divieto di rilascio del certificato anagrafico ad uso di un ufficio pubblico o di un gestore di pubblico servizio.
Nei primi giorni del 2012, quando non era stata completamente metabolizzata la corretta gestione operativa dell’applicazione della nuova disciplina, non è stato raro imbattersi in uffici anagrafici asserragliati dietro il vetro di separazione dello sportello, nei cui confronti vano era il tentativo solamente di osare una richiesta di certificato di residenza.
Ogni certificato, nella confusione dei primi momenti, era negato anche al collega che, nell’ufficio accanto, intendeva acquisire il dato anagrafico per l’iscrizione di un neo-diciottenne nelle liste elettorali! (Senza accennare al verificarsi di sindromi da doppia personalità, degne di analisi freudiana, nei casi non infrequenti di coincidenza personale tra ufficiale d’anagrafe e responsabile del servizio elettorale...).
Il richiamo, operato, in particolare, dalla direttiva n. 14/2011 del Ministro della pubblica amministrazione, datata 22 dicembre 2011, alle corrette modalità di acquisizione dei dati e dei documenti da parte delle pp.aa., e la dirimente considerazione che le nuove norme trovano applicazione nei rapporti tra ufficio pubblico e privato cittadino (laddove le relazioni tra uffici pubblici sono governate dall’art. 43 TUDA, dettante disposizioni improntate al doppio principio di “economicità” e di “libertà delle forme” nella formazione delle certezze pubbliche) delineano, quindi, un quadro attuale della funzione certificativa degli operatori anagrafici che si differenzia a seconda del soggetto richiedente il certificato di residenza (o di stato di famiglia).
Invero, se la richiesta proviene da un privato, l’operatore dovrà rilasciare il certificato – dopo aver avvertito della sua inutilizzabilità nei riguardi di un ufficio pubblico – previa apposizione sul medesimo atto della dicitura “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”. Ove omettesse di fare ciò, si configurerebbe nei suo confronti una responsabilità amministrativa per violazione dei doveri d’ufficio, ex art. 74, comma 2, lett. c-bis), TUDA.
Viceversa, se è il soggetto pubblico (compreso il gestore di pubblici servizi) a necessitare del dato relativo alla residenza o stato di famiglia del privato cittadino, non potrà rivolgere a questi una richiesta di certificato anagrafico, perché un tale comportamento integrerebbe parimenti gli estremi della violazione dei doveri d’ufficio ai sensi dell’art. 74, comma 2, lett. a). Non potrebbe neanche accettare il certificato eventualmente già in possesso del cittadino, stante il perentorio tenore della disposizione appena citata.
Invece, dovrebbe chiedere (o accettare) che il dato richiesto sia fornito dal diretto interessato mediante produzione di una dichiarazione sostitutiva di certificazione, ai sensi dell’art. 46, comma 1, lett. b) e/o f), TUDA, anche qui a pena di incorrere nella responsabilità di cui al citato art. 74.

autocertificazione

Successivamente alla ricezione della dichiarazione sostitutiva, il pubblico ufficiale è tenuto ad effettuare idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi, sulla veridicità della dichiarazione sostitutiva prodotta dal cittadino (art. 71 TUDA).
Il controllo si effettua consultando direttamente gli archivi dell\'amministrazione certificante (normalmente mediante consultazione per via telematica dei suoi archivi informatici), laddove questa abbia rilasciato al soggetto postulante il dato apposita autorizzazione in cui vengono indicati i limiti e le condizioni di accesso volti ad assicurare la riservatezza dei dati personali ai sensi della normativa vigente (art. 43 TUDA), ovvero richiedendo alla medesima, anche attraverso strumenti informatici o telematici, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri da questa custoditi.
In quest’ultimo caso, diverso – quindi – dall’acquisizione diretta del dato, sarebbe ammissibile da parte dell’ufficiale d’anagrafe il rilascio di un certificato di residenza, indirizzato alla p.a. che avesse accettato una dichiarazione sostitutiva anagrafica e a conferma di questo dato?
La risposta non può che essere positiva in considerazione del fatto che il divieto ribadito dal commentato art. 15 Legge 183/2011 si colloca sul terreno dei rapporti tra pubblico ufficio e privato cittadino, impedendo – conformemente alle norme dell’Unione europea – di aggravare la posizione del soggetto privato con adempimenti non necessari, quali la richiesta e conseguente produzione di un certificato attestante un dato già nella disponibilità della (stessa o altra) pubblica amministrazione. Tuttavia, nelle relazioni tra uffici pubblici, fermo restando che il metodo privilegiato dall’ordinamento per il recepimento della certezza pubblica sul dato fornito dal cittadino è quello dell’acquisizione diretta dagli archivi dell’amministrazione certificante (su questo tema si tornerà in seguito), ove detto metodo non sia operante per qualsiasi motivo, la conferma del dato può essere fornita col mezzo ritenuto più idoneo, economico e celere da parte della p.a. titolata ad assicurare la certezza del dato (in conformità alla regola di cui all’art. 43, comma 5, TUDA). Quindi, ove ritenuto rispondente ai canoni appena richiamati, ben potrebbe l’ufficiale d’anagrafe avvalersi della accentuata meccanizzazione del proprio servizio di certificazione anagrafica, ed inviare un certificato di residenza prodotto informaticamente, tramite posta elettronica certificata, alla p.a. richiedente la conferma, ai sensi del citato art. 43, del dato residenziale.
Evidentemente, stessa dinamica seguiranno le relazioni tra uffici pubblici qualora la p.a. necessitante il dato anagrafico non lo abbia preventivamente seppur provvisoriamente acquisito dal privato, a seguito di produzione di dichiarazione sostitutiva (o di esibizione di documento d’identità o di riconoscimento in corso di validità, ai sensi dell’art. 45 TUDA), ma si sia attivata d’ufficio per adempimenti richiesti nell’ambito del procedimento amministrativo di propria competenza (come, appunto, nel caso dei rapporti tra responsabile del servizio elettorale e ufficiale d’anagrafe in occasione della revisione delle liste elettorali).
 
Comunque, questa non del tutto innovativa ma, si ripete, ripuntellata disciplina della funzione certificativa generale, ed in particolare anagrafica, non ha fatto in tempo a manifestare completamente i suoi effetti negli uffici demografici, che il governo Monti è intervenuto in maniera vigorosa in questo ambito con il suo primo provvedimento normativo ispirato alla semplificazione e allo sviluppo, introducente il c.d. “cambio di residenza in tempo reale”.