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Quando il carcere è di ostacolo alle procedure di rimpatrio

 

Dalla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea del 28 aprile 2011 al decreto-legge 89 del 2011

Africa e Italia mai così vicine. Nel millennio della globalizzazione, della caduta dei muri e delle frontiere, sempre più spesso le vicende di un popolo o di una nazione, ed a maggior ragione di un continente, sono in grado di produrre, in tempi molto più rapidi che in passato, significativi effetti soprattutto nei territori confinanti o vicini. E' sotto gli occhi di tutti l'incrocio, sempre più serrato, dei destini tra Nord Africa e Italia ed il nuovo scenario che si è venuto a determinare, nel breve periodo, nel Mediterraneo,  in particolare  per il nostro meridione,  a seguito della insurrezione delle popolazioni in alcuni Paesi del Maghreb e dei correlati sbarchi sulle coste siciliane ed in maniera più massiccia nell'isola di Lampedusa. Gravi conseguenze di ogni tipo: sul piano sociale, economico, politico, militare, organizzativo e perfino sul fronte dei rapporti internazionali, con un grande dispiego di risorse in ogni direzione. Se questo divenire accelerato poteva essere in parte prevedibile,  era invece inimmaginabile che un cittadino algerino avrebbe potuto incidere, con la sua vicenda personale,  sulla politica italiana in tema di immigrazione ed addirittura sui rapporti tra il nostro Paese e l'Unione europea su questo versante.

La scintilla che ha portato ad una deflagrazione giurisprudenziale sul terreno delle politiche migratorie si accendeva con il ricorso di Hassen El Dridi, alias Soufi Karim, contro la condanna ad un anno di reclusione comminata a suo carico dal Tribunale di Trento per il reato di permanenza irregolare nel territorio italiano, senza giustificato motivo, in violazione di un ordine di allontanamento emesso nei suoi confronti dal questore di Udine. La Corte d'Appello di Trento, investita dell'impugnativa, chiedeva, con procedimento d'urgenza, di conoscere  se la Direttiva 2008/115, in particolare gli articoli 15 e 16, doveva essere interpretata come ostativa alla normativa di uno Stato membro, come nel caso di specie quella italiana, che prevede l'applicazione della pena della reclusione ai casi di inottemperanza all'ordine, emesso dall'Autorità competente, di lasciare il territorio dello Stato entro un determinato termine. Posta in questi termini, la questione metteva inevitabilmente a confronto diretto la disciplina italiana in materia, nello specifico  gli articoli 13 e 14 del Testo Unico delle "disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n. 286, come modificato dalla Legge 15 luglio 2009 n. 94,  e la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16.12.2008 n. 2008/115/CE recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare". E' il caso di evidenziare  come tale direttiva, non recepita dallo Stato italiano (e da altri undici Stati), risultasse, secondo un principio consolidato in giurisprudenza,  comunque  pienamente applicabile essendo spirato il termine del 24 dicembre 2010, fissato per il suo recepimento. Va in limine sgomberato  pure il campo della inattaccabilità della competenza assoluta di ciascuno Stato membro in tema di  legislazione penale,  in quanto la giurisprudenza che si è occupata di tale "riserva", pur ribadendone la valenza in linea di principio,  ne ha condizionato l'applicabilità laddove norme e procedure di rango nazionale si ponessero in contrasto con il diritto dell'Unione, direttive incluse.

Con la decisione del 28 aprile 2011 (causa C-61/11 PPU) i giudici di Lussemburgo, giungono alla determinazione che la norma contenente la misura della reclusione, da uno a quattro anni,  prevista per lo straniero che senza giustificato motivo permanga in territorio italiano, comprometta la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva "rimpatri", privando quest'ultima della sua efficacia. Nello specifico la primaria ed assorbente censura della Corte di giustizia europea,  rispetto alla normativa italiana richiamata, è quella di aver introdotto una pena detentiva che si pone in stridente contrasto con la ratio della direttiva 2008/115 che impone agli Stati  di adoperarsi per l'effettivo allontanamento e  rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. La pena detentiva, a detta dei giudici, viene infatti a confliggere e con il sistema Europa in materia, ritardando il rimpatrio o addirittura mettendone a rischio l'esecuzione. A corollario della censura fondamentale, la Corte europea richiama in sentenza,  nel secondo, sesto, tredicesimo, sedicesimo e diciassettesimo "considerando" della direttiva, il principio di proporzionalità e di efficacia dei mezzi da impiegare nei confronti degli stranieri  irregolari, sottolineando come il loro trattenimento (che dovrebbe di norma avvenire nei centri di permanenza temporanea) possa essere giustificato solo per preparare il rimpatrio o nel caso in cui le misure coercitive adottate si siano rivelate insufficienti. Ad integrazione di questo assunto, i giudici europei puntualizzano come norme e procedure applicabili al rimpatrio debbano avvenire "nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale". La decisione della Prima Sezione sottolinea inoltre come il trattenimento del cittadino irregolare possa essere mantenuto finchè sussista un rischio di fuga o lo straniero ostacoli il rimpatrio o l'allontanamento ma che tale periodo non possa superare i sei mesi. Deroghe a tale limite temporale, comunque non superiore ad ulteriori dodici mesi (per un totale quindi di diciotto mesi), sono ipotizzabili, per gli Stati membri, nei soli casi in cui le operazioni di allontanamento rischino di prolungarsi a causa della mancata cooperazione del cittadino straniero destinatario della procedura o di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi  terzi.

Nell'ipotesi estrema della sistemazione degli "irregolari" in un istituto penitenziario, l'ordinamento europeo prevede specifiche condizioni del trattenimento, imponendo l'obbligo di separazione di questi  dai detenuti ordinari. Sotto questo aspetto l'Italia ha le carte in regola e gli stranieri irregolari finiscono in celle miste solo nel caso in cui si siano resi colpevoli di reati comuni. In sintesi, ad essere censurato dalla Corte di Giustizia europea non è il reato di clandestinità introdotto  nel nostro ordinamento con la legge 15 luglio 2009 n.94, ma è la sanzione della detenzione per il reato di inottemperanza all'espulsione in quanto in contrasto, anzi di ostacolo, alla Direttiva europea in materia, la quale  privilegia il rimpatrio come soluzione allo status di straniero irregolare. Mentre la normativa europea riconosce agli Stati membri la facoltà di introdurre disposizioni più favorevoli per i soggiornanti irregolari, pur sempre in linea con la direttiva 2008/115, non ammette invece norme più severe nell'ambito di tale disciplina, come quelle dell'ordinamento italiano, macchiate  pure del vizio della sproporzionalità, in palese violazione dei principi cardine della materia penalistica. Questo si sostanzia non solo in riferimento alla fattispecie considerata in sè, ossia il mancato adempimento all'ordine di una autorità amministrativa, ma anche in rapporto all'ipotesi di ingresso irregolare dello straniero in Italia,  sanzionato in modo molto più leggero (ammenda da 5000 a 10.000 euro), e, da ultimo, in considerazione del principio che la privazione della libertà deve avere durata quanto più breve possibile e commisurata al tempo necessario per l'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio. La proporzione andrebbe inoltre soppesata anche nella parametrazione con i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti: la forza della norma penale in un contesto come quello considerato sembrerebbe da ricercare in un marcato segnale dissuasorio piuttosto che in una consistente pena afflittiva, che, obiter dictum, risulta ben  più severa  anche rispetto a reati oggettivamente più gravi e socialmente più pericolosi.

Quali le conseguenze di una sentenza che non a torto può essere definita fondamentale nel contesto delle politiche migratorie? La prima conseguenza, espressa in sentenza e rivolta al giudice di rinvio,  è quella di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, quindi disapplicare ogni disposizione del decreto legislativo n. 286/1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo. Ciò facendo il giudice del rinvio dovrà tenere debito conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (...e pluribus...sentenze 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02).
Dal quadro suesposto emerge chiaramente come all'Italia non sia stata addebitata una colpa per aver coniato il reato di clandestinità ma per l'incapacità di procedere in concreto alle espulsioni ed agli allontanamenti e di aver sopperito a questa incapacità "strutturale" con un rimedio, la misura detentiva, che rompeva con il sistema Europa imperniato sui rimpatri.

Insomma il percorso logico giuridico dei giudici europei sembra condurre ad un monito ben preciso nei confronti dello Stato italiano: è necessario allontanare i clandestini piuttosto che rinchiuderli nelle carceri. Gli effetti di questa sentenza "storica", sono, sul piano giudiziario, le scarcerazioni di tutti gli irregolari detenuti per non aver eseguito l'ordine di allontanamento dal suolo italiano, che, tecnicamente, sarà collegata alla richiesta degli avvocati patrocinanti degli stranieri, come anche dai garanti dei detenuti che intendono invece la scarcerazione  quale  atto dovuto in ossequio sia alla sentenza in parola che alla direttiva europea 115 del 2008, "sufficientemente precisa e dettagliata per essere direttamente applicata". A questo punto le assoluzioni degli imputati risultano cosa certa  perchè il fatto non sussiste. Si ipotizzano un migliaio di scarcerazioni: ha iniziato il carcere di Marassi a Genova con la messa in libertà di quattro immigrati, detenuti perchè irregolari "inadempienti" ma è da ipotizzare un solerte riesame, da parte delle procure, di tutti fascicoli investiti dalla sentenza del 28 aprile, anche se, nonostante la portata retroattiva della decisione, per le sentenze passate in giudicato c'è un grosso punto interrogativo sul da farsi. E poi ci sono altre conseguenze a cascata, per nulla trascurabili; basti pensare ai costi delle soccombenze ed alle ipotesi di più gravi richieste risarcitorie, in ordine alle quali deve scattare da subito, per l'Amministrazione dello Stato, la strada dell'autotutela.

Una fattispecie particolare riguarda i ricorsi presentati avverso i provvedimenti di inammissibilità riguardanti le domande di emersione irregolare in ragione di detta inottemperanza all'ordine questorile di allontanamento dal territorio italiano, ai sensi dell'art. 1 ter co. 13 lett. c) della legge 102/2009 ("Non possono essere ammessi alla procedura di emersione  i lavoratori extracomunitari.... che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 del medesimo codice").  Essendo venuto meno, con la citata decisione della Corte di Giustizia il presupposto di tale inammissibilità, tutto il contenzioso instaurato in materia è da ritenersi ribaltato, come tempestivamente indicato dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria con due decisioni (nn. 7 e 8 del 2 e 10 maggio 2011) che non lasciano margini di manovra agli uffici statali competenti, in particolare agli Sportelli Unici per l'Immigrazione, se non quelli di conformarsi prontamente  agli indirizzi giurisprudenziali emersi. A ben vedere la disciplina sulla  presenza irregolare dello straniero in Italia ha rappresentato anche in passato un terreno ostico per il nostro ordinamento; infatti, con la sentenza n. 249 dell'8 luglio 2010, la Corte Costituzionale dichiarava l'illegittimità costituzionale della connotazione giuridica di "circostanza aggravante" riferita a tale fattispecie, come introdotta, all'articolo 61, c.11 bis del codice penale, dal D.L. 92/2008 convertito in L. 125/2008, in quanto basata sulla mera qualità personale dell'autore e svincolata dal reato per cui si procede. La Corte, con tale sentenza smantellava sostanzialmente "la responsabilità penale d'autore" in quanto lesiva del principio di offensività, rimuovendo quello che parte della dottrina definisce "lo stigma" per lo straniero colpevole di ingresso non autorizzato nel territorio nazionale. In precedenza i medesimi giudici, con le pronunce 222 e 223 del 15 luglio 2004 avevano dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’arresto obbligatorio dello straniero in presenza di un reato contravvenzionale quale era l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, tanto che il legislatore, con la legge 271/2004, era costretto  a ridefinire come delitto l’indebita permanenza in Italia del clandestino. Successivamente la Corte tornava ad occuparsi dell'allontanamento dello straniero irregolare, questa volta,  con sentenza del 17.12.2010, n. 359,  dichiarando  l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo  286/1998, come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera m), della legge 94/2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non disponeva che l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al comma 5-ter, fosse punita nel solo caso che abbia luogo "senza giustificato motivo".

La sentenza "El Dridi", per suoi connotati peculiari, imponeva risposte tempestive perchè la Commissione europea avrebbe potuto avviare contro l'Italia un procedimento di infrazione con correlata sanzione economica, probabilmente non leggera e quindi ulteriormente dolorosa. I riflettori si sono spostati quindi principalmente sui rimedi, che dovevano tener conto del decisum  europeo senza distaccarsi dalla linea politica del governo sul fronte migratorio, il cui impianto  complessivo non poteva ritenersi smantellato anche se vulnerato da un fattore nuovo decisamente rilevante, al quale sopperire normativamente con un disegno di legge oppure, stante l'urgenza, con un decreto-legge mirato.

Puntuale la risposta del Governo italiano che nel Consiglio dei ministri del 16 giugno approvava il testo, finalizzato a scongiurare l'avvio di procedure d'infrazione nei confronti dello Stato italiano, con una serie di "disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari",  norme ora presenti nel Capo II del decreto-legge del 23 giugno 2011 n. 89 che ha modificato ex novo le modalità di esecuzione dei provvedimenti  di espulsione. Nel provvedimento d'urgenza viene innanzitutto prevista  una procedura  di espulsione coattiva immediata, previa valutazione del singolo caso, per le  ipotesi in cui il cittadino irregolare di un Paese terzo costituisca un pericolo per l'ordine pubblico o per la pubblica sicurezza oppure nel caso in cui lo straniero abbia tenuto comportamenti che denotino la volontà di non assoggettarsi alla procedura di rimpatrio, oppure in presenza di una espulsione a titolo di misura di sicurezza o di sanzione alternativa alla detenzione. Sarà il prefetto a valutare, caso per caso, il rischio di fuga, sulla base di criteri  e circostanze fissati in modo specifico dall'articolo 3, comma 1, lettera c) n. 4) della  nuova disciplina. Il decreto-legge, conformemente alla direttiva comunitaria, disciplina la procedura di rimpatrio dello straniero mediante la concessione di precisi termini per la partenza volontaria.

L'effettività del provvedimento di allontanamento è assicurata dalla adozione di una o più misure, da parte del questore, soggette a convalida del giudice di pace, quali la consegna del passaporto, l'obbligo di dimora, la presentazione presso gli uffici di polizia. Queste stesse misure sono parimenti alla base della ipotesi alternativa al trattenimento nei Centri di identificazione ed Espulsione, che il questore deve chiedere necessariamente al giudice di pace in caso di proroga dei periodi di trattenimento a carico dello straniero irregolare. L'inottemperanza all'ordine di allontanamento emesso dal questore - questa la norma cardine del decreto-legge 89 del 2011 - non è punita con la pena detentiva della reclusione ma con una sanzione pecuniaria ed il procedimento penale correlato viene ricondotto a quello già previsto per il reato di immigrazione clandestina di cui all'art.10 bis del D.Lgs. 286 del 1998, con la possibilità per il giudice di pace di sostituire la condanna dello straniero irregolare con l'espulsione dello stesso. Sempre in ragione della necessità di adeguare l'ordinamento italiano a quello comunitario, le nuove disposizioni prevedono che il divieto di reingresso dello straniero, da determinarsi caso per caso, non possa essere superiore ai cinque anni, tranne i casi di stranieri destinatari di provvedimenti di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato o di prevenzione del terrorismo o di ordine pubblico. Il decreto-legge disciplina infine l'attuazione dei programmi di rimpatrio  volontario e assistito degli irregolari verso i Paesi di origine o di provenienza, prevedendo a tal fine la collaborazione di organizzazioni, enti, associazioni ed enti locali. Un apposito decreto ministeriale, da adottare entro 60 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione, indicherà le linee guida per l'attivazione di tali programmi, che, se compiutamente avviati, potranno rappresentare un rimedio significativo ed efficace per la problematica in parola, forse la soluzione più auspicabile sotto il profilo giuridico, economico, operativo ed umanitario.


(Alberto Bordi - Viceprefetto Aggiunto - Iscritto Albo docenti di diritto presso la  S.S.A.I.)
 

17 gennaio 2012