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L'istituto della espulsione dello straniero

 

L’istituto della espulsione dello straniero
dall’unità d’Italia a oggi. Profili storico-giuridici.

 

 

 
 
 
 

La disciplina del procedimento di espulsione dello straniero riflette per molti aspetti l’atteggiamento complessivo dell’ordinamento nei confronti di un fenomeno, quello dell’immigrazione, che vive una tensione costante, particolarmente acuitasi negli ultimi anni, tra esigenze di sicurezza e controllo dei flussi migratori da un lato e tutela dei diritti fondamentali dall’altro.

 

Il presente studio propone di tracciare un breve profilo storico dell’espulsione, evidenziando gli aspetti generali dell’evoluzione dell’istituto in rapporto alla disciplina legislativa complessiva del fenomeno migratorio.

 
 
Dall’unità d’Italia al primo conflitto mondiale
 

 

 

All’indomani dell’unità d’Italia le concezioni relative all’ingresso e soggiorno dello straniero erano per lo più ispirate a principi illuministici o di stampo cosmopolitico di derivazione kantiana. In sostanza, si riconosceva in linea di principio allo straniero una libertà di ingresso e di soggiorno nel territorio dello Stato che poteva trovare limitazioni soltanto in ragioni di ordine pubblico e sicurezza. L’art. 3 del codice civile del 1865 prevedeva, infatti, che “lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini” e non contemplava alcun riferimento al principio di reciprocità riconoscendo una piena equiparazione dello straniero al cittadino.[1] Il diritto di soggiorno però solo da pochi autori era considerato un vero e proprio diritto civile del tutto equiparabile a quello goduto dai cittadini: la maggioranza infatti lo configurava come un diritto politico e, come tale, comprimibile dall’autorità amministrativa. Si riconosceva, infatti, allo Stato un diritto ad espellere disciplinato secondo la logica del doppio binario: la espulsione come conseguenza a condanna penale da un lato, la espulsione come misura di polizia dall’altro. In entrambi i casi l’autorità competente a decidere in via definitiva era il Ministro dell’Interno.

 

L’espulsione era prevista sia dal codice penale sia dalla legge di pubblica sicurezza[2]. Gli artt. 439 e 446 del codice penale prevedevano in capo all’autorità giudiziaria il potere di espellere lo straniero quale pena accessoria per i reati di vagabondaggio e mendicità, previa autorizzazione del Ministro dell’Interno.[3]

 

La legge di P.S. riconosceva all’amministrazione dell’Interno il potere di procedere alla espulsione degli stranieri condannati per reati contro la proprietà. Oltre alle ipotesi previste espressamente per legge esisteva poi, secondo l’opinione prevalente, una generica potestà di espulsione riservata all’amministrazione per motivi di sicurezza pubblica, fondata sui principi generali dell’ordinamento e sulla norma che conferiva a tutti gli ufficiali di p.s il compito di vegliare sull’osservanza delle leggi e del mantenimento dell’ordine pubblico (art. 9 legge di p.s)[4].

 

La medesima legge prevedeva inoltre, all’art. 73, che in caso di espulsione dello straniero“qualora non sia possibile conoscere la nazionalità ed il luogo dove possa essere avviato o ricevuto, la stessa autorità politica potrà assegnargli un luogo di confino, sino a che si possa procedere alla sua espulsione”. C’è chi oggi vede la previsione dell’assegnazione in un luogo di confino come un sorta di “peccato originale” in riferimento al trattenimento degli stranieri in attesa di espulsione previsto dall’ordinamento vigente .[5]

 

Pertanto ad un principio generale di libertà di ingresso e soggiorno corrispondeva un potere discrezionale fortissimo dell’amministrazione circa le misure espulsive di polizia, che risultavano di fatto sottratte a limitazioni di carattere legislativo.

 

L’introduzione del codice penale Zanardelli (1889) eliminò le ipotesi di espulsione quali pene accessorie alla commissione di reati cosicchè la disciplina della espulsione dello straniero venne in pratica demandata alla nuova legge di pubblica sicurezza del 30.6.1889 n. 6144 e al relativo regolamento di attuazione che rispecchiavano l’esigenza di riordinare la materia in chiave garantista rispetto alla precedente arbitraria prassi di polizia.[6] L’espulsione è vista in funzione non più repressiva ma sostanzialmente preventiva in quanto connessa ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico, ed in ogni caso il provvedimento espulsivo è previsto soltanto come facoltativo.[7] Tra le novità, va segnalata l’attribuzione anche al Prefetto della competenza ad emanare il provvedimento espulsivo. Una prima ipotesi riguardava gli stranieri condannati per delitto che, scontata al pena, potevano essere espulsi dal Regno e condotti alla frontiera con provvedimento del Prefetto della Provincia in cui si verificava al liberazione del detenuto[8]. Anche in tal caso si conservava la funzione preventiva della misura in quanto la commissione del delitto costituiva la base per un giudizio di una sostanziale pericolosità del soggetto e dunque la espulsione trovava la sua giustificazione nell’evitare futuri perturbamenti dell’ordine pubblico.[9]

 

Altra ipotesi espulsiva era quella spettante al Ministro dell’Interno che poteva, in base all’art. 90 della legge di p.s., ordinare “per motivi di ordine pubblico” l’espulsione e la conduzione alla frontiera dello straniero di passaggio o residente nel Regno. Va evidenziato come la nozione di ordine pubblico fosse molto elastica e comunque tale da far sì che il provvedimento potesse riguardare anche i vagabondi mendicanti o indigenti. C’era però l’esigenza di distinguere caso per caso le situazioni con speciale riguardo agli stranieri che loro malgrado si trovavano in situazione di indigenza ed emigravano con l’obiettivo di migliorare la loro condizione. Pertanto si suggeriva che “le autorità del nuovo Stato devono usare speciali riguardi e non mostrarsi inumane col rifiutare loro l’accesso; solo dopo un dato periodo, che chiameremo d’esperimento, se, nonostante la buona volontà, lo straniero non è riuscito a trovare lavoro, oppure dopo aver dimorato sul territorio è, per circostanze a lui indipendenti, impossibilitato a continuare una qualche utile occupazione, le autorità locali potranno allontanarlo, non già espellendolo, ma rimpatriandolo”[10].

 

I Prefetti delle Province di confine potevano, sempre per motivi di ordine pubblico e in caso di urgenza, allontanare dai Comuni di frontiera gli stranieri di passaggio o residenti nel Regno, riferendone in ogni caso al Ministro (c.d. internamento). Tali provvedimenti erano motivati dalla esigenza di allontanare dalla frontiera gli stranieri che potevano risultare particolarmente pericolosi in ragione delle comunicazioni dirette e più facili che si potevano effettuare con gli stranieri oltre il confine. Ulteriore potere attribuito ai Prefetti e non al Ministro, in quanto doveva eseguirsi con immediatezza, era quello di respingere dalla frontiera gli stranieri “che non sappiano dar contezza di sé, o siano sprovveduti di mezzi”. Dall’inottemperanza all’ordine del Ministro o del Prefetto, che integrava secondo la legge di p.s. una contravvenzione, discendeva obbligatoriamente l’espulsione con divieto di rientro nel Paese senza una particolare autorizzazione rilasciata dal Ministro dell’Interno.

 

Occorre segnalare che – nel periodo in esame – l’espulsione non costituiva l’unico strumento di allontanamento previsto in quanto la legge consentiva il rimpatrio, volontario o facoltativo, dello straniero sospetto o privo di mezzi, nei confronti del quale non si rinvenissero gli estremi per l’espulsione.

 

Caratteristica della legislazione dell’epoca è l’assenza di norme procedurali di attuazione, lacuna questa colmata da numerose circolari con le quali si disciplinarono in modo minuzioso l’esecuzione del provvedimento espulsivo ed altri aspetti legati al trattamento degli stranieri.[11] La funzione della espulsione quale misura di prevenzione consentiva la gestione completa dell’istituto da parte dell’autorità amministrativa e il conseguente venir meno di qualsiasi ruolo dell’autorità giudiziaria. La possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso i decreti di espulsione non era contemplata nell’ordinamento, nonostante da più parti e soprattutto in sede internazionale se ne ribadisse la necessità.[12]

 

E’ con il R.D. del 14.11.1901 n. 466 che si stabilì, in funzione di attenuazione del potere discrezionale riservato all’amministrazione, che sulle proposte di provvedimento di espulsione dovesse acquisirsi il parere del Consiglio dei Ministri.

 

Come anticipato, la normativa dell’epoca non esplicitava quali fossero le garanzie giurisdizionali cui avrebbe potuto ricorrere lo straniero attinto dal provvedimento espulsivo. Alcuni autori, considerando la posizione dello straniero rispetto al soggiorno un vero e proprio diritto, sostenevano la possibilità del ricorso all’autorità giudiziaria anche in virtù del citato art. 3 del codice civile che come già evidenziato riconosceva agli stranieri il godimento dei diritti civili attribuiti ai cittadini. Per la maggior parte della dottrina tuttavia la posizione dello straniero si configurava come un mero interesse legittimo, per cui, mentre alcuni prospettavano la possibilità del ricorso alla IV sezione del Consiglio di Stato, i più ritenevano invece preclusa ogni facoltà al riguardo, in quanto il provvedimento espulsivo (in particolare quello ministeriale) era assimilabile ad un atto politico, e dunque, come tale, sottratto al sindacato giurisdizionale.

 

Si ammetteva comunque la possibilità di tutela amministrativa in via gerarchica o di autotutela tramite il ricorso al Ministro avverso le espulsioni prefettizie e la possibilità di richiedere la revoca al Ministro per le espulsioni da lui decretate.[13]

 

Dall’Unità d’Italia al primo decennio del secolo scorso l’Italia non aveva una legge ad hoc che disciplinasse in modo specifico l’ingresso e il soggiorno degli stranieri, tale situazione, però era destinata a cambiare profondamente con lo scoppio del conflitto mondiale.

 

 

 

La Grande Guerra e il regime fascista

 

Nel periodo della Grande Guerra “gli stranieri da persone solo potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico, si trasformano, nella realtà del conflitto, in persone immediatamente sospette, da assoggettare ad un sistema rigido di controlli.”[14]

 

Il Regio Decreto 2.5.1915 n. 634, assoggettò, infatti, a penetranti controlli formali l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Italia. Nessuno poteva entrare in Italia se non munito di passaporto e di visto d’ingresso; inoltre, entro 24 ore dall’ingresso nel territorio nazionale era fatto obbligo di presentarsi all’autorità di polizia  per rilasciare una dichiarazione scritta in cui si doveva indicare: le generalità, il luogo di provenienza, il tempo gia trascorso nel Regno, i motivi di ingresso, il periodo previsto di permanenza, il luogo del domicilio, le proprietà possedute nel Regno e le condizioni economiche generali, l’adempimento degli obblighi del servizio militare nello Stato di provenienza. Anche in caso di instaurazione di rapporto lavorativo (di qualsiasi genere) era previsto l’obbligo di comunicazione all’autorità di polizia. Qualora vi fossero fondati motivi per dubitare delle generalità dello straniero era previsto l’obbligo di sottoporre lo stesso a rilievi fotografici, dattiloscopici, ed antropometrici.

 

Il potere di espulsione venne ampliato nel suo raggio d’azione attraverso una nuova fattispecie che prevedeva il potere del Prefetto, previa autorizzazione del Ministro dell’Interno, di espellere gli stranieri per la violazione di semplici contravvenzioni alle norme dell’ordinamento dirette a disciplinare il soggiorno dello straniero. Secondo il citato R.D. non necessariamente l’espulsione doveva scaturire da una condanna risultando sufficiente allo scopo una semplice denuncia.

 

Il regime fascista conferì carattere di stabilità alla normativa prodotta nella contingenza del conflitto mondiale. Venne emanato il RD 25.1.1923 n. 64,  successivamente integrato nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), RD 18 giugno 1931 n. 773, e relativo regolamento di attuazione, RD 6.5.1940 n. 635, con i quali si regolamentavano l’entrata, gli spostamenti e l’attività dello straniero. Per tali norme l’espulsione aveva carattere definitivo e l’eventuale reingresso veniva sanzionato penalmente (da due a sei mesi di arresto) fatta salva una speciale autorizzazione al rientro che poteva rilasciare solo il Ministro dell’Interno.

 

Le modalità di esecuzione della espulsione erano quelle dell’accompagnamento coattivo alla frontiera e del foglio di via obbligatorio (in questo ultimo caso attraverso un itinerario tracciato dalla polizia). C’è da notare che all’epoca l’espulsione non era l’unico mezzo adoperato per allontanare dal territorio lo straniero considerato pericoloso o indesiderato. Accanto al provvedimento di espulsione sussisteva infatti la possibilità, utilizzata molto di frequente nella prassi, di allontanare mediante “foglio di via obbligatorio” sia gli stranieri che in astratto potevano essere attinti da provvedimento espulsivo ex art. 150 tulps, sia quelli che non erano in grado di dare contezza di sé o fossero privi di mezzi, o che esercitassero la prostituzione o mestieri dissimulanti l’ozio, il vagabondaggio, o la questua.[15] 

 

La prassi amministrativa introdusse anche un’altra modalità espulsiva, quella “a proprio rischio e pericolo”, che consisteva nel condurre gli stranieri sprovvisti di mezzi e/o documenti presso la frontiera per consentire loro di attraversarla clandestinamente verso gli Stati confinanti con l’Italia. Ciò ovviamente esponeva gli stranieri a rischi di sanzioni da parte degli Stati in cui entravano clandestinamente, che, ove li avessero rintracciati, li avrebbero potuti respingere nuovamente in Italia.[16]

 

Dalla prassi veniva pure disciplinato il trattenimento degli stranieri, spesso effettuato presso gli uffici di polizia dei valichi di frontiera, che era disposto nei confronti di chi era sprovvisto di documenti ovvero di chi in precedenza espulso, veniva nuovamente rinvenuto in Italia.

 

Per quanto riguarda le modalità di ingresso, la semplice dichiarazione di soggiorno prevista in precedenza venne trasformata in un atto di natura autorizzatoria, il “nulla osta”, con conseguente allargamento del potere discrezionale dell’autorità di polizia.

 

Il codice Rocco reintrodusse la fattispecie della espulsione nella legislazione penale configurandola come misura di sicurezza e non più come pena accessoria, conferendole carattere obbligatorio e sottraendola nella sua applicazione alla valutazione discrezionale del giudice. In particolare essa veniva prevista per le ipotesi di condanna alla reclusione non inferiore a dieci anni (art. 235 c.p.) ovvero nei casi di delitti che offendono la personalità dello stato (art. 312 c.p.).

 

Per quanto concerne le ipotesi di espulsione amministrativa si conservarono quelle previste dalla legislazione del 1915, che consentivano la possibilità di espellere lo straniero condannato in modo irrevocabile per un delitto, nonchè lo straniero denunciato per contravvenzione alle disposizioni della legge di p.s. relative al soggiorno degli stranieri e per motivi di ordine pubblico. Mentre in quest’ultimo caso la competenza venne conservata in capo al Ministro dell’Interno titolare del provvedimento di concerto con il Ministro degli Affari Esteri e l’assenso del Capo del Governo, nei primi due casi la competenza fu lasciata al Prefetto della provincia in cui dimorava lo straniero previa autorizzazione ministeriale.

 

In sostanza tutto il sistema delle espulsioni ruotava intorno al concetto di pericolosità sociale dello straniero. Nel caso delle espulsioni giurisdizionali essa discendeva da una presunzione operata a monte dalla stesso legislatore, collegata alla commissione di alcuni particolari delitti, da cui conseguiva l’applicazione obbligatoria del provvedimento espulsivo. Nel caso di espulsione di polizia la valutazione della pericolosità era invece rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione che agiva, come già visto, sulla base di scarse previsioni di legge. Peraltro poiché tale ultima fattispecie poteva collegarsi alla commissione di un qualsiasi delitto si rischiava, di fatto, la sovrapposizione con la precedente.[17]

 

 

 

La Costituzione repubblicana e il “vuoto” normativo

 

Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana nel 1948, muta il quadro di riferimento della disciplina relativa agli stranieri in Italia. L’art. 10 comma 2 prevede che la “condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. In tal modo si è posto un doppio vincolo: quello dato dalla riserva di legge che consente di sottrarre all’esecutivo quella sfera di discrezionalità molto ampia riconosciuta in precedenza, e quello costituito dal richiamo alle norme internazionali che esprime un’apertura dell’Italia ai valori universalistici espressi nel diritto internazionale generalmente riconosciuto.

 

La Corte Costituzionale ha inoltre interpretato le norme della Carta Fondamentale nel senso di riconoscere agli stranieri l’eguaglianza nella titolarità dei diritti fondamentali della persona sostenendo che “se è pur vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando si tratta di rispettare i diritti fondamentali.”[18]

 

La posizione dello straniero rimane tuttavia distinta da quella del cittadino per una serie di motivazioni che i giudici della Consulta evidenziarono a più riprese. Ad esempio: “non può escludersi che tra cittadino e straniero, benché eguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti”.[19] Le differenze di trattamento sono possibili purchè improntate al criterio di ragionevolezza, considerando che tra cittadino e straniero si riscontrano delle difformità nelle  situazioni di fatto e nelle valutazioni giuridiche, connesse alla circostanza che il primo ha un rapporto di norma originario e permanente con lo Stato, mentre il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo.

 

La Corte ha fatto salvo l’impianto del TULPS in materia di stranieri attraverso considerazioni che marcano le differenze tra i due status: mentre “il cittadino ha diritto di risiedere dovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente senza limiti di tempo, lo straniero, invece, può recarsi a vivere nel territorio nostro, come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che è in genere limitato, salvo che egli non ottenga il diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata prolungata o indeterminata; inoltre il cittadino non può essere allontanato per nessun motivo dallo Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi reati”.[20]

 

In base a questa linea interpretativa rimane ferma l’esigenza di controllo degli stranieri per motivi di ordine e sicurezza pubblica, e ciò conferisce allo Stato che ospita lo straniero la potestà di revocare in ogni momento il permesso di soggiorno o limitarne la circolazione nel proprio territorio.[21] D’altro canto le esigenze di tutela dello straniero in ragione dei principi costituzionali non potevano essere eluse. Fu la stessa Corte ad affermare da un lato, de iure condito, la sussistenza del diritto dello straniero alla tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di polizia in materia di ingresso e soggiorno, e dall’altro, de iure condendo, ad auspicare un riordinamento della materia, in considerazione della delicatezza degli interessi in gioco, che tenesse conto della esigenza di “consacrare in compiute ed organiche norme le modalità e le garanzie di esercizio delle fondamentali libertà umane collegate con l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri in Italia”.[22]

 

Per molti anni la risposta del legislatore invece non ci fu e la scarna normativa del TULPS continuò ad essere l’unica a regolare la condizione dello straniero sul territorio dello Stato.

 

L’emergenza derivante dal fenomeno del terrorismo e la necessità di garantirsi un ampio margine di manovra anche in questa materia portò il legislatore ad approvare nel 1975 la legge n. 152 (c.d. legge Reale) con cui venivano previste nuove ipotesi di respingimento alla frontiera e di espulsione caratterizzate da un’ampia discrezionalità. L’art. 25 in particolare disponeva che, fatti salvi i limiti derivanti dalle convenzioni internazionali, “gli stranieri che non dimostrano, a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza, la sufficienza e la liceità delle fonti del loro sostentamento in Italia, possono essere espulsi dallo Stato” con le modalità previste dal TULPS. Tale norma non era, com’è ovvio, applicabile nell’ipotesi di straniero che avesse ottenuto asilo politico e si aggiungeva a quella di cui all’art. 152 del TULPS concernente l’espulsione prefettizia per motivi di ordine pubblico.

 

Nuove fattispecie di espulsione venivano poi introdotte nel 1975 dalla legge n. 685 recante la disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope.

 

 Va ricordato come il progressivo processo di comunitarizzazione che ha determinato la necessità di recepire nel nostro ordinamento un numero sempre maggiore di direttive comunitarie, ha prodotto a partire dalla metà degli anni Sessanta uno sdoppiamento della normativa relativa agli stranieri in quanto “mentre gli stranieri extracomunitari restavano soggetti alla lacunosa ed illiberale disciplina dettata dal testo unico di P.S., ai cittadini dei Paesi membri fu riservato un regime specifico, incomparabilmente più garantista”[23]

 

Anche la disciplina in materia di espulsioni era destinata ad evolversi di pari passo al progredire dei fenomeni migratori. A metà degli anni settanta, a seguito del blocco degli ingressi da parte dei Paesi occidentali, mete tradizionali dei flussi migratori, causato dalla crisi petrolifera del 1973, l’Italia fu interessata dall’arrivo un cospicuo numero di lavoratori provenienti dal nord Africa, nonché di filippini e di esuli sudamericani in fuga dalle dittature[24].

 

Con la pubblicazione dei dati del censimento generale della popolazione del 1981 si prese piena coscienza dell’inversione di tendenza del fenomeno migratorio, infatti dalle rilevazioni dei dati risultava che in Italia, per la prima volta, era arrivata (o tornata) più gente di quanta ne fosse partita.[25] In questo contesto la carenza di una disciplina di regolamentazione dei flussi determinava una forte presenza di ingressi clandestini e soggiorni irregolari, per cui un intervento legislativo in materia appariva ormai necessario e improcrastinabile.

 

Tuttavia e’ solo con la legge n. 943 del 1986, attuativa della Convenzione OIL del 1975 n. 143, sul trattamento dei lavoratori migranti che si introducono le prime forme di tutela per i cittadini extracomunitari. Tra queste: la prima disciplina sul ricongiungimento familiare, il divieto di privare di permesso di soggiorno il lavoratore rimasto disoccupato e sanzioni di carattere penale contro l’intermediazione, lo sfruttamento e l’impiego illegale di lavoratori extracomunitari. Viene prevista in tale ambito anche una sanatoria per i clandestini presenti sul territorio al 31.12.89, mentre la disciplina delle espulsioni non registrava modifiche sostanziali rimanendo in vigore le nome del TULPS. La legge faceva espressamente salve le disposizioni concernenti l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri e prevedeva all’art. 17 che i lavoratori immigrati clandestinamente in Italia in data successiva a quella dell’entrata in vigore della medesima legge fossero immediatamente rimpatriati, così come i lavoratori clandestini che non avessero proposto domanda di regolarizzazione.

 

 

 

 

 

L’Italia Paese d’immigrazione: gli anni 90 tra emergenze ed esigenze di regolamentazione.

 

 

 

Negli anni Novanta l’immigrazione in Italia registra un salto di qualità. La caduta dei regimi comunisti dell’est determinò un riversamento nel nostro Paese di profughi albanesi e jugoslavi di entità tale che l’immigrazione nei suoi connotati a volte drammatici, divenne anche un fenomeno mediatico. Soprattutto a livello di stampa tale realtà era considerata quasi esclusivamente nel contesto di episodi di cronaca criminale, con l’assenza della voce diretta degli immigrati e delle loro testimonianze. Contestualmente nelle cronache dell’epoca si assiste anche ad un sempre maggior rilievo dato agli episodi di razzismo[26]; problema quest’ultimo che fa da sfondo all’indagine conoscitiva della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati sulla immigrazione e condizione giuridica dello straniero, realizzata nel 1989 [27] e propedeutica ad un intervento legislativo in materia, da tempo auspicato.

 

Il Parlamento approvò il decreto-legge 30.12.89 n. 416, poi convertito nella legge 39/90 (c.d. legge Martelli) con la quale si tentò di realizzare una prima disciplina organica in materia di immigrazione e asilo, regolando gli aspetti relativi all’ingresso e soggiorno che in precedenza erano stati per lo più disciplinati mediante circolari. Inoltre l’impegno preso dall’Italia di aderire alla Convenzione Schengen imponeva di adottare un complesso di norme relative al controllo dei flussi, al soggiorno e allontanamento degli extracomunitari, al fine di integrare l’Italia nel sistema multilaterale di controllo delle frontiere esterne del territorio comune dell’UE. La legge intervenne in due ambiti distinti: la disciplina della regolamentazione quantitativa dei flussi e gli aspetti legati al soggiorno dello straniero con riferimento a lavoro, famiglia e diritti sociali.[28] Per la prima volta vi è una disciplina dettata direttamente da fonte legale per quanto attiene al permesso di soggiorno e relativa proroga, revoca e rifiuto, che ne chiarisce in modo esplicito la natura di atto autorizzatorio. Vennero disciplinate le ipotesi di respingimento e intensificate al contempo le misure per contrastare la clandestinità con la introduzione di fattispecie penali nei casi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Fino ad allora il potere di respingimento era attribuito al Prefetto e regolato, come visto, dagli art. 152 del TULPS e 271 del Regolamento di attuazione che disciplinavano la facoltà di respingere per motivi di ordine pubblico gli stranieri che non fossero in grado di dimostrare la propria identità o che fossero sprovvisti di mezzi, nonchè gli stranieri già presenti sul territorio, che fossero indigenti, dediti alla prostituzione o che svolgessero mestieri dissimulanti l’ozio o il vagabondaggio. Con la nuova legge si riformula l’istituto collocando la titolarità del provvedimento di respingimento agli uffici di frontiera (e non più al Prefetto) al fine di evitare che lo stesso potesse essere rivolto a stranieri già presenti sul territorio. Il respingimento è, inoltre, previsto nei confronti di stranieri già espulsi o segnalati come persone pericolose per la sicurezza dello Stato o appartenenti a organizzazioni di tipo mafioso o dedite al traffico di stupefacenti ovvero a organizzazioni terroristiche. Devono, infine, essere respinti anche gli stranieri muniti di regolare visto di ingresso ma risultati manifestamente sprovvisti di mezzi di sostentamento.

 

Uno degli aspetti su cui incise in maniera penetrante la legge Martelli è quello del sistema delle espulsioni amministrative che viene ridisegnato a seguito della espressa abrogazione degli artt. 150 e 152 del TULPS e il 267 del Regolamento di attuazione con l’introduzione di importanti modifiche.[29]

 

Nella prassi precedente, come visto, era frequente l’adozione del provvedimento prefettizio del “foglio di via obbligatorio” per il rimpatrio o l’allontanamento alla frontiera, anche in assenza di condizioni richieste per l’espulsione circostanza questa che contribuiva a creare una situazione di precarietà della posizione dello straniero[30]. Con la legge 30/90 l’espulsione diviene il principale strumento di allontanamento degli stranieri dal territorio dello Stato, essendo state eliminati le altre fattispecie di allontanamento previste dall’art. 152 Tulps anche per la scarsa efficacia dimostrata da tale misura.[31]

 

Ferme restando le ipotesi di espulsione previste già nell’ordinamento dal codice penale, dalla normativa in materia di stupefacenti e dall’art. 25 della legge Reale; la legge Martelli prevede  la espulsione: per lo straniero che viola le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno; per lo straniero che si sia reso responsabile, direttamente o per interposta persona, in Italia o all’estero di violazionidi disposizioni fiscali italiane o delle norme sulla tutela del patrimonio artistico o in materia di intermediazione di manodopera nonché di sfruttamento della prostituzione o del reato di violenza carnale o comunque di delitti contro la libertà sessuale (art. 7 comma 2). In tutti questi casi l’espulsione assume il carattere di provvedimento obbligatorio: Permane invece intatta l’espulsione ministeriale per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. Una novità della legge 39/90 fu l’introduzione di una nuova fattispecie di espulsione amministrativa, di carattere facoltativo, per motivi di pericolosità sociale, nei confronti degli stranieri a cui astrattamente sarebbe applicabile una misura di prevenzione in quanto rientranti in una delle categorie di cui alla legge 27.12.1956 n. 1423, o che si trovano in una delle condizioni di cui all’art. 1 della legge 31.5.1965 n. 575 recante disposizioni contro la mafia. In sostanza mentre per i cittadini italiani nelle medesime circostanze individuate dalla legge scattano le misure preventive quali la sorveglianza speciale, l’obbligo di soggiorno etc, per gli stranieri è previsto il provvedimento di espulsione e a differenza delle prime quest’ultima viene applicata autonomamente dalla amministrazione senza le garanzie di un preventivo vaglio giurisdizionale.[32] Il provvedimento espulsivo, come è stato notato, si presenta in tale fattispecie come un atto “a sorpresa” cioè senza che il destinatario abbia potuto interloquire con l’amministrazione né durante il procedimento di acquisizione degli elementi di valutazione della sua pericolosità né al momento di adozione del provvedimento espulsivo.[33] Dunque è solo il Prefetto che valuta la sussistenza o meno della pericolosità sociale dello straniero in quanto in sede di eventuale ricorso il giudice potrà solo verificare ab estrinseco quanto valutato dall’amministrazione procedente, ossia scrutinare la completezza logica e non contraddittorietà della valutazione medesima, senza poterla sostituire o integrarla con altri elementi.[34] La giurisprudenza ha chiarito come ai fini della valutazione della pericolosità sociale è necessario procedere ad un accertamento oggettivo e non meramente soggettivo degli elementi che giustificano presunzioni e sospetti, nonché procedere ad un esame globale dell’intera personalità del soggetto, quale risulta da tutte le manifestazioni sociali della sua vita al fine evidenziare l’attualità della pericolosità dello straniero.[35]

 

Sul versante delle espulsioni giudiziarie la legge Martelli prevede la espulsione per gli stranieri che abbiano riportato una condanna per uno dei delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 1° e 2° comma del c.p.p.). In realtà tale fattispecie espulsiva in origine era dubbio se dovesse inquadrarsi nell’ambito di quelle amministrative o giudiziarie. Fu la Corte Costituzionale a considerarla di competenza del potere giudiziario, cioè in sostanza una misura di sicurezza.[36] Il sistema delle espulsioni giurisdizionali da sempre presenti nell’ordinamento (ad eccezione nel periodo di vigenza del codice Zanardelli) si evolve in ragione del mutamento complessivo delle misure di sicurezza operato dalla legge n. 663/86. Con tale normativa viene meno l’automatismo della espulsione giurisdizionale. Diversamente dal passato la valutazione della pericolosità sociale del soggetto attinto dal provvedimento espulsivo viene fatta in concreto dal giudice sulla base dei parametri fissati dal 113 c.p, escludendosi in tal modo quella presunzione legale di pericolosità, legata alla commissione di specifici delitti prevista in origine dal codice Rocco. Il requisito della pericolosità sociale è dunque alla base sia delle espulsioni giudiziarie che di quella amministrativa introdotta dalla legge Martelli nei confronti degli stranieri a cui sarebbe astrattamente applicabile una misura di prevenzione o che siano sospettati di appartenere ad associazioni di tipo mafiose. Appare chiaro però che “il campo della espulsione giurisdizionale corrisponde ad una valutazione di pericolosità post delictum, mentre l’ambito della espulsione amministrativa è quello della pericolosità ante, o preter delictum, senza possibilità di accavallamenti o sovrapposizioni”tra le due fattispecie espulsive.[37]

 

Uno degli aspetti di maggiore complessità della disciplina della espulsione, e che impegnerà il legislatore anche negli anni seguenti nella ricerca di soluzioni efficaci, è quello relativo alla modalità della sua esecuzione. La legge Martelli affida l’esecuzione dell’espulsione al Questore che  in via generale vi provvede mediante intimazione allo straniero ad abbandonare entro 15 giorni il territorio dello Stato secondo modalità di viaggio prefissato, ovvero mediante accompagnamento alla frontiera. Lo straniero che non osserva l’intimazione o che comunque si trattiene nel territorio dello Stato oltre il termine prefissato è immediatamente accompagnato alla frontiera.

 

Nell’ipotesi in cui non è possibile dare esecuzione immediata all’espulsione come quando si renda necessario effettuare accertamenti supplementari in ordine all’identità o nazionalità dello straniero il Questore può chiedere al tribunale l’applicazione della misura della sorveglianza speciale (con o senza l’obbligo di soggiorno in una determinata località) la cui trasgressione comporta la pena della reclusione fino a due anni. Tale norma costituisce l’antecedente dell’istituto del trattenimento nei Centri di Permanenza Temporanea (CPT), sia pure con differente portata sul piano della limitazione della libertà personale, che verrà introdotto successivamente.

 

Si è affermato che la disciplina dell’espulsione contenuta nella legge 39/90 nonostante l’introduzione di alcuni principi garantistici, abbia riprodotto nella sostanza le disposizioni normative del TULPS e dunque non si è avuta una “emancipazione della legislazione ordinaria sulla condizione giuridica degli stranieri dalla tradizionale prospettiva dell’ordine pubblico”.[38]

 

In realtà nella legge in esame non mancavano aspetti innovativi per quanto attiene alle garanzie accordate allo straniero, come ad esempio: le norme che impongono la motivazione del decreto di espulsione; la necessità che esso sia tradotto in una lingua comprensibile allo straniero o in una lingua veicolare, al fine di consentire un’effettiva conoscibilità del provvedimento, requisito indispensabile per l’esercizio del diritto di difesa di cui gode anche lo straniero irregolarmente presente sul territorio dello Stato.[39]

 

Per la prima volta inoltre veniva introdotto un limite esplicito al potere espulsivo e al respingimento in quanto tali provvedimenti non vengono consentiti verso uno Stato ove lo straniero può essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali.[40]

 

Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale, avverso il provvedimento di espulsione è  ammesso il ricorso al TAR del luogo del domicilio eletto dallo straniero, con termini ridotti alla metà rispetto a quelli normalmente previsti (idem per il caso di diniego e revoca del permesso di soggiorno). Da notare la possibilità in sede di ricorso di ottenere la sospensione della esecutività del decreto di espulsione fino alla definitiva decisione sulla domanda cautelare; ciò avrebbe comportato per alcuni una sorta di giurisdizionalizzazione della materia in quanto “il provvedimento amministrativo, sostantivamente, si tramuta in un potere di proposta, che può essere accolta o meno dall’autorità giudiziaria”.[41]

 

La richiesta di sospensione cautelare è esclusa invece per l’ipotesi di espulsione Ministeriale per motivi di ordine pubblico e sicurezza, nonché per l’ipotesi di straniero già espulso e rientrato nel territorio dello Stato che viene attinto nuovamente da decreto espulsivo.

 

Il ricorso alla giustizia amministrativa presentava comunque inconvenienti legati al fatto che la legge non prevedeva alcun termine per la decisione sulle istanze di sospensiva, venendosi così a creare una situazione di precarizzazione dei soggetti sottoposti ad espulsione.[42]

 

Nella prima metà degli anni Novanta il numero delle persone non fornite di permesso di soggiorno aumentò per diversi motivi tra i quali: la difficoltà da parte degli immigrati regolari di dimostrare di godere delle condizioni di lavoro e di reddito necessarie per il rinnovo del permesso di soggiorno; l’applicazione di norme più restrittive per gli ingressi.[43] Inoltre una serie di episodi contingenti, quali gli esodi di massa dalla Albania ed ex Jugoslavia, indussero il legislatore ad intervenire nuovamente in materia di immigrazione attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza.

 

Le modifiche apportate ai meccanismi di polizia degli stranieri successivamente alla legge n. 39/90 hanno avuto come obiettivo principale quello di conferire maggiore efficacia alle misure di espulsione in particolare prevedendo in molti casi che l’esecuzione della espulsione avvenisse mediante accompagnamento coattivo alla frontiera.[44] Con il decreto legge n. 187/93 (convertito in legge n. 296/93) venne introdotta la nuova fattispecie della espulsione a richiesta di parte,  che aveva come scopo dichiarato quello di ridurre o non aggravare il sovraffollamento carcerario.[45] Lo straniero detenuto in attesa di giudizio poteva riacquistare la libertà a patto di farsi espellere, il che determinava per la Corte Costituzionale l’applicazione di una misura “dal contenuto più afflittivo di quello proprio di una pena detentiva [46].

 

Il Dl n. 489/95 reiterato cinque volte senza essere convertito estendeva alPubblico Ministero la possibilità di richiedere l’espulsione. Tale fattispecie espulsiva rappresentava una conferma della contaminazione tra esigenze di controllo dell’immigrazione ed esigenze di politica criminale caratterizzante la legislazione in materia.[47] In sostanza l’istituto dell’espulsione da sempre connesso ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico e sicurezza viene con tale previsione ad assolvere anche ad un’inedita funzione di politica carceraria, legata all’emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena.

 

E’ da ricordare, inoltre, che il citato decreto legge n. 489/95, prevedeva la possibilità da parte dell’Autorità Giudiziaria di richiedere, laddove fosse necessario accertare l’identità dello straniero, o acquisire i documenti necessari per il viaggio, ovvero in caso di pericolo di fuga, la misura dell’obbligo di dimora ex art. 283 c.p.p. per un periodo di tempo non superiore ai 30 giorni. Tale misura restrittiva consisteva nella prescrizione di non allontanarsi dalla struttura o edificio indicati nel provvedimento e scelti tra quelli individuati con decreto dal Ministero dell’Interno, pena la reclusione fino ad un anno. Fecero dunque ingresso, con tale decretazione d’emergenza, le strutture detentive per stranieri in attesa di espulsione poi previste in modo stabile dalla legge n. 40/98.

 

Si è notato come sino a quel momento, il frequente ricorso allo strumento del decreto legge, dettato da situazioni di urgenze ed emergenza, esprimeva in realtà la mancanza di un disegno politico di carattere generale in materia di controllo dell’immigrazione..[48]

 

Dopo gli anni della decretazione d’urgenza il legislatore intervenne con una disciplina organica  introdotta dalla legge n. 40/98, trasfusa poi nel d.lvo n. 286/98 (Legge Turco-Napolitano, Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero). Tale normativa segna un significativo cambiamento di rotta rispetto alla legge Martelli considerata troppo favorevole per lo straniero, venendo in tal modo il legislatore incontro alle esigenze di “un’opinione pubblica divenuta in quegli anni probabilmente più ostile nei confronti degli immigrati”.[49] Ma a ben vedere, con la nuova legge si prende definitivamente coscienza del fatto che l’immigrazione straniera è un fenomeno ordinario, non contingente, e che pertanto merita una disciplina organica in tutti i suoi aspetti, “nel senso che deve essere regolato e non ignorato né represso, perché lo straniero è anzitutto una persona come le altre, con tutte le esigenze delle altre persone”[50]

 

La normativa del Testo Unico tende principalmente a rendere maggiormente effettive le misure di allontanamento sia attraverso un aumento delle ipotesi in cui la espulsione deve eseguirsi per mezzo dell’accompagnamento coattivo alla frontiera, sia attraverso un ampio utilizzo della misura del respingimento. In particolare è previsto che quest’ultimo possa eseguirsi non solo alla frontiera, ma anche nei confronti di coloro che vengono fermati subito dopo essere entrati sottraendosi ai relativi controlli, e di quanti sono ammessi sul territorio, senza averne i requisiti, per esigenze di soccorso.

 

La materia delle espulsioni subisce significative modifiche.

 

E’ allargato il raggio d’azione delle ipotesi di espulsione come misura di sicurezza, infatti mentre la legge n. 39/90 aveva aggiunto alle ipotesi previste dal codice penale quelle per i delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio, la nuova legge, recependo il contenuto dei decreti legge emanati nel 1995-96, la estende anche alle ipotesi  di delitti in cui l’arresto è solo facoltativo (art. 381 c.p.p).

 

Viene inoltre riordinato il sistema delle espulsioni amministrative.

 

E’abrogata la fattispecie prevista nella legge Reale e quella di cui all’art 7 comma 2 della legge Martelli, considerata troppo generica nella sua formulazione[51], mentre al contempo si riformulano le fattispecie espulsive relative alla violazione delle norme sull’ingresso e soggiorno attraverso una loro maggiore tipizzazione. L’espulsione è infatti prevista per lo straniero che entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera non è stato respinto; per lo straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato senza avere richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno è stato revocato o annullato, ovvero è scaduto da più di 60 giorni e non è stato richiesto il rinnovo. L’espulsione amministrativa in sostanza è prevista per le violazioni più gravi della disciplina sul soggiorno e ingresso. Appare chiaro che l’espulsione in origine legata a esclusive ragioni di sicurezza e ordine pubblico, diviene, nelle ipotesi in cui è collegata alle violazioni in materia di ingresso e soggiorno, strumento preordinato “ad assicurare una razionale gestione dei flussi di immigrazione nel nostro paese”.[52]

 

Permane, invece, la ipotesi di espulsione amministrativa introdotta dalla legge Martelli per motivi di pericolosità sociale per gli stranieri sospettati di delitti di mafia o nei cui confronti è astrattamente applicabile una misura di prevenzione. Tale fattispecie viene estesa anche ai titolari di Carta di soggiorno purchè, a differenza di quanto previsto dalla fattispecie generale, sia stata loro effettivamente applicata, anche in via cautelare, una misura di prevenzione da parte della competente autorità giudiziaria. La necessità della previa applicazione delle misura di prevenzione, assolve alla funzione di assicurare al titolare della carta di soggiorno un’effettiva partecipazione al procedimento giurisdizionale con tutte le garanzie di difesa conseguenti.

 

Ulteriore ipotesi di espulsione è prevista per i titolari di permesso di soggiorno o titolo equipollente rilasciato dall’autorità di uno Stato appartenente all’Unione Europea. E’ ovvio che tali soggetti non sono tenuti a chiedere un nuovo titolo di soggiorno quando entrano in Italia, e tuttavia la legge impone loro l’obbligo di dichiarare la propria presenza al Questore entro 8 giorni dall’ingresso. Qualora ciò non avvenga è prevista una sanzione amministrativa a cui si accompagna l’espulsione, del tutto facoltativa e discrezionale, nel caso in cui l’omessa dichiarazione si protragga per più di 60 giorni. Le difficoltà applicative di tale fattispecie sono principalmente legate al fatto che i possessori di permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato membro dell’Unione Europea possono circolare liberamente nello spazio Schengen e quindi non sono tenuti a farsi apporre sul passaporto il timbro di ingresso con l’indicazione della data certa, per cui si ritiene che la prova della data di ingresso può essere offerta con ogni mezzo.[53]

 

Novità non trascurabile è rappresentata dalla mitigazione degli effetti della espulsione in quanto se in precedenza sotto il vigore dell’art. 151 del Tulps (non abrogato dalla legge Martelli) l’espulsione comportava un divieto di reingresso illimitato[54], con la nuova disciplina il limite al divieto di reingresso è previsto in cinque anni, fatto salvo il potere dell’autorità giudiziaria in sede di ricorso di ridurre il divieto a tre anni sulla base di motivi addotti dallo stesso interessato e tenuto conto della complessiva condotta tenuta da questi sul territorio dello Stato.

 

Anche la materia della tutela giurisdizionale subisce importanti modifiche con la devoluzione al Giudice Ordinario (Pretore) dei ricorsi avverso le fattispecie di espulsione amministrativa ferma restando, invece, in capo al Giudice Amministrativo la competenza in materia di espulsione Ministeriale nonché dei provvedimenti in tema di soggiorno.

 

L’attribuzione della competenza al Giudice Ordinario fu salutata da molti come una maggiore garanzia per lo straniero; in realtà si affiancava a disposizioni quali la brevità del termine per la proposizione del ricorso, la brevità del termine in cui deve concludersi il giudizio, e l’impossibilità di sospensione cautelare del provvedimento espulsivo che, di fatto, venivano ad attenuare le forme di tutela previste alla precednte normativa.[55] A complicare ulteriormente l’esercizio di difesa dello straniero intervengono poi le norme contenute nel d.lvo n. 113/99 che prevedono quale rimedio avverso la decisione del Pretore il solo ricorso in Cassazione, nonché lo spostamento della competenza territoriale dal luogo di dimora dell’interessato al luogo in cui ha sede l’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato. Si è evidenziato come il procedimento giurisdizionale di controllo della legittimità delle espulsioni, incentrato sulla cognizione sommaria e sull’urgenza, fosse sintomo della convinzione che i procedimenti in tema di espulsione non richiedessero una seria articolazione e verifica dei presupposti che in fatto e in diritto li giustificassero; tale situazione ha determinato però il risultato inatteso di “una giurisprudenza fortemente contraddittoria caratterizzata da decisioni di segno opposto su casi simili”.[56] Alcuni punti critici della tutela giurisdizionale prevista dal Testo Unico sono costituiti dalla ripartizione di competenza tra il TAR (per i provvedimenti quali il diniego di permesso di soggiorno,di rinnovo, di istanza di regolarizzazione etc, che sono prodromici alla successiva espulsione) e il Giudice Ordinario (per le espulsioni) con possibilità di reciproche interferenze e conseguente pregiudizio per una effettiva tutela dello straniero. In materia si esclude tuttavia la sussistenza della pregiudizialità amministrativa cosicché il giudice ordinario in sede di ricorso avverso il provvedimento espulsivo può esercitare il sindacato incidentale di legittimità di eventuali atti presupposto (di diniego del rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno) e eventualmente disapplicarli, disponendo annullamento per illegittimità derivata del decreto di espulsione. [57]

 

Per quanto concerne il profilo della esecutività della misura espulsiva mentre, come già detto in precedenza, vengono introdotte nuove ipotesi di accompagnamento coattivo alla frontiera, il legislatore rivede le misure amministrative applicabili nei casi in cui l’espulsione non possa eseguirsi immediatamente. La legge Turco-Napolitano introduce l’istituto del trattenimento dello straniero presso i CPT, in regime di permanenza coatta, con la funzione di consentire all’Amministrazione di realizzare il rimpatrio forzoso dello straniero espulso e, nello stesso tempo,  di impedire che il medesimo si sottragga alla esecuzione del provvedimento di espulsione. Poiché la misura del trattenimento incide sulla libertà personale dello straniero essa viene sottoposta a convalida da parte dell’Autorità Giudiziaria, ricorribile per Cassazione anche se tuttavia il ricorso non produce effetti sospensivi. Emerge con sempre più evidenza, dalla disamina dell’evoluzione normativa come le forme di controllo che precedono l’espulsione siano sempre più prossime alla detenzione (dalla sorveglianza speciale al trattenimento nei CPT) e rimesse sempre più alla competenza del Questore  anziché a quella del giudice.[58]

 

 

 

Tra le novità introdotte dal Testo Unico vi è l’abrogazione della espulsione a richiesta di parte e l’introduzione di una nuova fattispecie: la espulsione come sanzione sostitutiva alla detenzione, tuttavia l’esigenza di fondo che la giustifica, a ben vedere, è la medesima, ossia la riduzione dell’affollamento delle carceri. Nell’applicazione della misura si svincola la decisione del giudice dal consenso dell’interessato che era invece condizione indispensabile nella espulsione a richiesta, e rendeva quest’ultima più in linea con il sistema di garanzie dell’ordinamento giuridico.[59] Secondo Corte Costituzionale la misura in questione riveste carattere amministrativo, e non quello di una vera e propria pena, in quanto la fase dell’esecuzione della stessa è rimessa alla competenza dell’autorità amministrativa al contrario di quanto avviene per l’esecuzione della pena, che è promossa dal Pubblico Ministero.[60]

 

I limiti al potere espulsivo vengono ulteriormente ampliati. All’unico divieto di espulsione previsto dalla legge Martelli  per lo straniero a rischio di persecuzione nello Stato di destinazione, il legislatore, recependo alcuni orientamenti giurisprudenziali, aggiunge ulteriori fattispecie ostative al provvedimento di allentamento: per gli stranieri minori (salvo il diritto di seguire il genitore o affidatario espulsi), per gli stranieri in possesso di Carta di soggiorno (salve le ipotesi di pericolosità sociale dei medesimi), per gli straniericonviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge di nazionalità italiana, delle donne o in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio.[61] Mentre il divieto connesso al rischio di persecuzione è assoluto, cioè vale per qualsiasi tipo di espulsione, compresa quella ministeriale, i divieti introdotti dal Testo Unico si riferiscono alle sole ipotesi di espulsione prefettizia e a quelle disposte dall’autorità giudiziaria. L’intento del legislatore nel prevedere tali limiti è stato quello di privilegiare la tutela dei diritti fondamentali o di situazioni protette sia a livello costituzionale che internazionale, come il diritto d’asilo o lo status di rifugiato, la protezione dei minori, della maternità, e la tutela dell’unità familiare.[62]

 

 

 

Gli ultimi interventi legislativi

 

La nuova maggioranza di governo di centro-destra approva nel 2002  la legge Bossi-Fini (l. 189/02), con l’intento dichiarato sia di migliorare la disciplina dei flussi migratori sia di contrastare in modo più efficace l’immigrazione clandestina, aspetto quest’ultimo considerato per la verità come prevalente.[63] In effetti è stato notato come dopo gli eventi terroristici dell’undici settembre 2001, le linee evolutive delle norme internazionali o comunitarie in materia di immigrazione sono risultate più restrittive e rigorose, ed i profili di contrasto e lotta all’immigrazione clandestina hanno assunto specifico e prevalente rilievo.[64]    

 

C’e da rilevare che da quel momento in poi gli ulteriori interventi legislativi in materia sono stati per lo più dettati dall’esigenza di adeguare le modifiche introdotte dalla legge 189/02 alle censure della Corte Costituzionale. L’esigenza primaria avvertita dal legislatore del 2002 di dare effettività ai provvedimenti espulsivi è stata bilanciata dalle pronunce della Corte che hanno imposto una riscrittura del sottosistema di provvedimenti amministrativi e giudiziali finalizzati all’espulsione che tenesse conto delle garanzie e tutele giurisdizionali costituzionali applicabili agli stranieri. 

 

 Se da un lato vengono allungati i termini per la presentazione del ricorso avverso il provvedimento espulsivo da 5 a 60 giorni, tuttavia questo assume il carattere di immediata esecutività per cui può essere notificato allo straniero contestualmente alla sua esecuzione anche in presenza di gravame o impugnativa da parte dell’interessato. La immediata esecutività è invece esclusa per coloro che erano titolari di un precedente permesso di soggiorno di cui non si è stato chiesto od ottenuto il rinnovo. L’attenzione del legislatore si concentra sulla necessità di conferire concreta effettività al provvedimento espulsivo prevedendo, al tal fine, che è sempre disposto l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, ad eccezione dell’ipotesi in cui lo straniero si è trattenuto nel territorio dello Stato con permesso di soggiorno scaduto e senza averne richiesto il rinnovo entro i termini di legge. Tuttavia anche in tal caso il Questore può disporre l’accompagnamento immediato alla frontiera dello straniero laddove il Prefetto rilevi il concreto pericolo che quest’ultimo si sottragga all’esecuzione del provvedimento. [65]

 

Tutto il sistema previsto per assicurare l’effettività della espulsione viene irrigidito e implementato con sanzioni di carattere penale. Il trattenimento nei CPT viene protratto a 30 giorni, previo giudizio di convalida da parte del giudice, prorogabili di altri 30 qualora l’accertamento dell’identità o nazionalità ovvero l’acquisizione dei documenti di viaggio presenti gravi difficoltà.  Trascorsi inutilmente i termini di trattenimento nel CPT il Questore ordina allo straniero di allontanarsi dal territorio dello Stato entro 5 giorni, e in caso di violazione dell’ordine è prevista la pena dell’arresto da sei mesi ad un anno nonché l’assoggettamento ad una nuova espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera. E’ agevole dedurre che anche quest’ultima misura si riveli di dubia e difficile applicazione attesa al difficoltà a identificare lo straniero; ad essa infatti non potrà che conseguire un nuovo ordine del Questore a lasciare il territorio dello Stato, confidando nell’effetto deterrente del processo e della sanzione penale irrogata. A ben vedere c’è la possibilità che si venga a creare un circolo vizioso dal quale non è possibile uscire se lo straniero non è nelle condizioni necessarie, anche economiche, di lasciare effettivamente il territorio dello Stato.[66]

 

 

 

Tra le novità della legge vi è l’introduzione della fattispecie della espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione (art. 15 l. n.189/02) che viene disposta dal magistrato di sorveglianza, nei confronti dello straniero, identificato e detenuto, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni. Anche per tale fattispecie, come in precedenza per la espulsione a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione, la Corte Costituzionale ne ha riconosciuto la natura amministrativa. L’istituto in questione si applica infatti allo straniero che si trova in una delle condizioni previste per la espulsione amministrativa dall’art. 13 2° del T.U. Nella sostanza, poiché  al termine della esecuzione della pena detentiva avrebbe trovato comunque applicazione l’espulsione amministrativa, la Corte Costituzionale afferma che “viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni”.[67] Tale fattispecie ha solo il nomen iuris delle altre misure alternative alla detenzione conosciute dal nostro ordinamento. Quest’ultime configurate come benefici rispetto alla pena detentiva sono connotate da una funzione rieducativa, mentre lo scopo della misura in questione è soltanto quella della riduzione della popolazione carceraria.[68]

 

Alla luce delle ricostruzioni operate dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale emerge che sussistono alcune garanzie comuni che riguardano sia l’espulsione disposta dall’autorità amministrativa che l’espulsione disposta dal giudice ma avente natura amministrativa (quale la espulsione come sanzione alternativa o sostitutiva alla detenzione). Per tutti questi provvedimenti è infatti necessario affinché si possa procedere all’espulsione che sussistano le condizioni di cui all’art. 13 comma 2° e 3° T.U; che vi sia cioè conformità alle norme che disciplinano i divieti di espulsione, che siano indicate le modalità di impugnazione; che siano tradotti allo straniero che non comprede l’italiano, in una lingua a lui comprensibile, ovvero, quando ciò non sia possibile in inglese, francese o spagnolo a seconda della preferenza dell’interessato; che sia assolto l’obbligo di motivazione.

 

 

 

La legge Bossi-Fini introduce una nuova fattispecie espulsiva per il titolare di permesso di soggiorno per lavoro autonomo che sia condannato in modo definitivo per reati contro la tutela del diritto d’autore, o di contraffazione o alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali ovvero di introduzione e commercio nello stato di prodotti con segni falsi (artt. 473 e 474 c.p.). Si tratta di reati che statisticamente sono commessi in maniera quasi esclusiva da extracomunitari. La norma prevede la revoca immediata del permesso di soggiorno e il provvedimento espulsivo. Per la prima volta nel nostro ordinamento viene comminata la sanzione dell’espulsione per delitti per i quali non è consentito l’arresto neppure facoltativo in flagranza, dunque reati che non destano particolare allarme sociale.[69]

 

Tutto il sistema delle espulsioni risulta inasprito, cosi come le conseguenze che da esse derivano, in quanto il legislatore rende più severo il limite al reingresso nel territorio italiano elevandolo in linea generale da 5 a 10 anni, salva la possibilità di riduzione del medesimo (in ogni caso non inferiore a 5 anni). Il potere di riduzione del limite temporale è rimesso alla discrezionalità dell’autorità che ha emanato il provvedimento di espulsione e dunque non si colloca più in via esclusiva in capo all’autorità giudiziaria come previsto in passato dalla legge 40/98.

 

Nel 2004 intervengono due sentenze della Corte Costituzionale (nn.222 e 223) che inducono il legislatore ad intervenire nuovamente in materia. In particolare la Corte censura l’istituto dell’accompagnamento coattivo alla frontiera. Introdotto con la decretazione d’urgenza post legge Martelli e ampliato nel suo raggio di applicazione dalla legge Turco-Napolitano l’accompagnamento coattivo alla frontiera diviene la regola per l’esecuzione delle espulsioni con la legge Bossi Fini. Sino al 2002 il legislatore aveva disciplinato questo mezzo coattivo di esecuzione dell’espulsione senza prevedere alcun sindacato giurisdizionale di controllo, pur trattandosi di un mezzo destinato a comprimere la libertà personale dello straniero.[70] La Corte era già intervenuta in materia affermando nella sentenza 105/01 che le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione non subiscono attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. In sostanza “per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e ordine pubblico connessi ai flussi immigratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che , al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umani”. [71] La Corte con una sentenza interpretativa di rigetto non intaccò direttamente l’istituto ma il legislatore, onde evitare successive censure di incostituzionalità, attraverso lo strumento del decreto legge, [72] attribuì all’autorità giudiziaria il potere di convalida del provvedimento che ordina l’accompagnamento alla frontiera sancendo però il principio della immediata esecutività del medesimo. Evidentemente tale disposizione non era  sufficiente a fornire alla straniero adeguate garanzie in quanto la convalida interveniva solo dopo che il provvedimento di accompagnamento era stato eseguito.  In definitiva il provvedimento di accompagnamento comportava effetti irreversibili e la sua convalida si risolveva in un mero controllo cartolare improduttivo di effetti e come tale inidoneo a garantire la libertà personale dello straniero dall’errore (o dall’abuso) amministrativo.[73]

 

Si spiega dunque il nuovo intervento della Corte costituzionale che con la citata sentenza 222/04 dichiara illegittimo l’art. 13 comma 5° del T.U. nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del medesimo, con le garanzie della difesa, a motivo del fatto che l’accompagnamento alla frontiera per mezzo della forza pubblica investe la libertà personale e pertanto che deve essere assistito dalla garanzie di cui all’art. 13 3° Cost. Il legislatore con legge 12.11.04 n. 271 riscrive la disciplina prevedendo che il provvedimento di accompagnamento alla frontiera sia sottoposto a convalida del giudice di pace entro le 48 ore e che non sia esecutivo sino a che non intervenga la convalida inoltre stabilisce la partecipazione necessaria di un difensore all’udienza di convalida al fine di assicurare l’effettività del diritto di difesa.

 

La competenza per i procedimenti contro i provvedimenti di espulsione passa ai giudici di pace, prevedendosi tra l’altro la collocazione dei medesimi presso le Questure, al fine di garantire una tempestiva definizione di tutti gli adempimenti di carattere amministrativo e giurisdizionale necessari per dare esecuzione all’espulsione.

 

Dopo gli attentati terroristici di Londra del 2005 il legislatore interviene nuovamente con norme di carattere eccezionale dettate dalla situazione di forte allarme che si era venuta a creare in tutta Europa.

 

Con il decreto legge n. 144/05 viene introdotta una nuova fattispecie di espulsione  per lo straniero appartenente a una delle categorie di cui all’art. 18 l. 22.5.75 n. 152 o nei cui confronti vi siano fondati motivi di ritenere che la sua presenza sul territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche anche internazionali. La norma, atteso il suo carattere eccezionale,  ha una durata limitata nel tempo (fino al 31.12.07) e si caratterizza per la sua idoneità a comprimere fortemente i diritti soggettivi in ragione di esigenze primarie di sicurezza. L’espulsione è di competenza del Ministro dell’Interno che può anche delegare il Prefetto[74]. Gli elementi peculiari sono costituiti dalla immediata esecutività del decreto espulsivo e dalla circostanza che l’accompagnamento coattivo alla frontiera non è assoggettato a convalida, come invece previsto per i casi generali di espulsione, con evidenti problemi di compatibilità costituzionale della norma. Per gli stranieri sottoposti a procedimento penale non è prevista la necessità del nullaosta dell’autorità giudiziaria per l’esecutività del provvedimento. Lo straniero potrà ricorrere al Tar avverso il provvedimento espulsivo senza peraltro poter beneficiare della possibilità di sospensiva cautelare del medesimo.

 

 

 

I reati collegati all’espulsione

 

I reati collegati all’espulsione di cui gli artt. 13 e 14 del Testo Unico sono reati propri in quanto il soggetto attivo deve rivestire in alcuni casi la qualità di straniero destinatario di provvedimento espulsivo mentre in altri deve risultare già espulso dal territorio dello Stato. I reati in questione presentano analogie strutturali con la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. la cui offensività giuridica è peraltro molto discussa.

 

La normativa in esame è stata caratterizzata da una notevole instabilità dopo il 1990.

 

Con la legge Martelli la esecuzione dell’espulsione avviene mediante l’intimazione a lasciare il territorio e la giurisprudenza ritenne penalmente irrilevante la trasgressione all’ordine in considerazione della specialità della normativa che prevedeva, come sanzione amministrativa per l’inottemperanza, la misura dell’immediato accompagnamento coattivo alla frontiera dell’espellendo.

 

Il legislatore per consentire l’effettiva esecuzione del provvedimento espulsivo aveva previsto nel ’98,  oltre alle ipotesi di accompagnamento coattivo alla frontiera anche il trattenimento nei CPT. La legge 189/02 prevede che il Questore qualora il trattenimento non sia più prorogabile ordini allo straniero di allontanarsi dal territorio entro 5 giorni. La trasgressione “senza giustificato motivo” a tale ordine è punita con l’arresto da sei mesi a un anno e si procede a nuova espulsione ma stavolta con accompagnamento coattivo alla frontiera(art. 14 5 ter T.U.). Invece è prevista la pena della reclusione da1 a 4 anni nel caso in cui nonostante l’esecuzione di quest’ultima misura lo straniero venga nuovamente trovato sul territorio dello Stato. (art. 14 5 quater T.U.). Sia nel primo che nel secondo caso è previsto l’arresto obbligatorio dell’autore del fatto e si procede con rito direttissimo. (art. 14 5 quinquies T.U.). La previsione dell’arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale, per di più sanzionato con pena detentiva inferiore a quella per cui l’ordinamento ammette la possibilità di disporre misure coercitive, è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale illegittima con la sentenza n. 223/04. Secondo il giudice delle leggi la misura “precautelare” dell’arresto, non essendo finalizzata all’adozione di nessun provvedimento coercitivo, si risolve in una limitazione provvisoria della libertà personale priva di qualsiasi funzione processuale ed è quindi per tale aspetto manifestamente irragionevole. [75]

 

Il legislatore, a seguito della predetta sentenza, con legge 271/04 ha innalzato la pena prevista per il reato in questione prevedendo la reclusione da 1 a 4 anni, e dunque elevandolo a rango di delitto. Se dal punto di vista giuridico l’introduzione dei nuovi valori sanzionatori sono compatibili con l’applicazione di misure cautelari coercitive e pertanto l’arresto obbligatorio appare in tale prospettiva legittimo, tuttavia, dal punto di vista politico, l’inasprimento delle pene ha prodotto accese polemiche.   

 

Abbiamo già detto che una delle fattispecie incriminatici già presenti nel TULPS prevedeva il divieto per lo straniero espulso di fare reingresso nel territorio dello Stato senza una previa autorizzazione del Ministro e che l’inosservanza del divieto comportava la pena dell’arresto da due a sei mesi (art. 151). L’articolo 151 del TULPS fu formalmente abrogato dal Testo unico del 98 ma il relativo contenuto fu in realtà trasfuso nell’art. 13,comma 13, che previde inoltre un limite temporale al reingresso nello Stato di cinque anni. Il sistema si mostrò inadeguato nella sua azione deterrente. E’ stato sottolineato come la esiguità delle sanzioni previste, la possibilità di sottrarsi all’arresto attraverso il beneficio della sospensione condizionale della pena e la circostanza che la norma punisse soltanto il reingresso clandestino e non anche la permanenza sul territorio, lasciava di fatto del tutto priva di sanzione la condotta dello straniero che non obbediva alla intimazione del Questore.[76]

 

Con la legge Bossi-Fini il reato di violazione del divieto di reingresso subisce un aumento della pena dell’arresto da sei mesi ad un anno mentre il limite al reingresso nello Stato è elevato a dieci anni.

 

La legge 271/04 comporterà un mutamento del reato da contravvenzione a delitto prevedendo la pena della reclusione da 1 a 4 anni.

 

Con la Bossi-Fini vengono altresì introdotte due nuove fattispecie di reato connesse all’espulsione entrambe punite con la reclusione da 1 a 4 anni. Da un lato è punita la trasgressione del divieto di reingresso nel caso di espulsione disposta dal giudice dall’altro si punisce lo straniero denunciato ex art. 13 comma 13 ed espulso che abbia fatto reingresso nel territorio dello Stato. La legge 271/04 inasprisce ulteriormente la pena sanzionando il reato con la reclusione da 1 a 5 anni. La Corte costituzionale con sentenza n. 466/05 ha dichiarato la incostituzionalità della disposizione in quanto connetteva alla circostanza della mera denuncia dello straniero effetti di maggior rigore per quanto attiene alla pena. In effetti afferma la Corte la denuncia “è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce”.

 

Per completezza di disamina in materia occorre anche ricordare che con il d.l. 187/93 convertito in legge 369/93, furono introdotte due fattispecie incriminatici: una relativa allo straniero che distrugge il passaporto o documento equipollente per sottrarsi all’esecuzione del provvedimento di espulsione, l’altra relativa allo straniero che non si adopera per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio occorrente. Quest’ultima fattispecie venne dichiarata incostituzionale per difetto di tassatività.[77]  . 

 

Infine va sottolineato come opportunamente la Corte Costituzionale ha affermato che “il quadro normativo in materia di sanzioni penali per l’illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativi della stessa.”[78]

 

 

 

Conclusioni

 

La normativa in materia di espulsione dello straniero attualmente in vigore è il frutto di una stratificazione di norme e di una rielaborazione di istituti che si sono susseguiti in un lungo arco di tempo senza peraltro seguire un unitario disegno politico.

 

 Abbiamo visto che in origine, subito dopo l’unificazione d’Italia, l’espulsione era legata solo ad esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza.

 

Successivamente, quando si introducono norme  sull’ingresso e il soggiorno nel territorio (a partire dallo scoppio del primo conflitto mondiale) essa viene collegata anche alle violazioni di tali norme.

 

Tale nuova funzione si consolida allorquando, a partire dagli anni 90, i flussi immigratori verso l’Italia diventano sempre più consistenti. L’espulsione diviene in quel momento anche lo strumento preordinato “ad assicurare una razionale gestione dei flussi di immigrazione nel nostro paese”[79] mirando a colpire le situazioni di irregolarità degli stranieri rispetto alle norme sull’ingresso e soggiorno tralaltro sempre più restrittive.  

 

L’introduzione negli ultimi anni di fattispecie quali l’espulsione alternativa o sostitutiva alla detenzione ha finito con l’aggiungere al provvedimento in questione anche una inedita funzione di politica carceraria, legata all’emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena.

 

La tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza viene invece garantita attraverso la espulsione di competenza del Ministro, che rappresenta una costante nel nostro ordinamento ( a partire dal 1889), ma anche dalle altre ipotesi di espulsione, quale quella applicabile agli stranieri titolari di permesso di soggiorno nei cui confronti sarebbe in astratto applicabile una misura di prevenzione, e quella prevista per i titolari di carta di soggiorno nei cui confronti sia stata disposta una misura di prevenzione da parte dell’autorità giudiziaria. Nel primo caso la espulsione si sostituisce alla misura di prevenzione, nel secondo si aggiunge alla stessa. A completare il quadro si aggiungono le ipotesi espulsive previste dalla legge antiterrorismo del 2005 e il generale sistema delle espulsioni come misure di sicurezza.

 

Dal punto di vista tecnico si può notare come una costante nel nostro ordinamento sin dall’unità d’Italia (ad eccezione del periodo di vigenza del codice Zanardelli) è stata quella della “logica del doppio binario” in virtù della quale si hanno fattispecie di espulsione collegate alla commissione di delitti, riservate alla competenza dell’autorità giudiziaria e configurate come misure di sicurezza, e ipotesi di espulsione intese come misure di polizia, riservate alla competenza dell’amministrazione dell’Interno.

 

Se in origine l’applicazione delle espulsioni come misure di polizia era rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione sulla base di scarne previsioni di legge, l’evoluzione in materia ha visto una crescente consapevolezza del legislatore in ordine alla necessità di introdurre maggiori forme di garanzia nei confronti dei soggetti attinti dai provvedimenti espulsivi.

 

Dalla estrema genericità con cui venivano formulate in origine le ipotesi di espulsione si assiste ad una progressiva opera di riformulazione delle fattispecie improntata ai principi di tipizzazione e tassatività al fine di restringere la sfera di discrezionalità in capo all’amministrazione competente, ciò in armonia con i principi costituzionali in materia dettati dall’art. 10 Cost comma 2. In sostanza le ipotesi di espulsione vengono considerate un numerus clausus come tali insuscettibili di interpretazione estensiva o analogica.

 

Per quanto concerne le garanzie di carattere giurisdizionale in materia il percorso legislativo negli ultimi anni si è dimostrato molto tortuoso.  

 

La espulsione come misura di sicurezza (progressivamente ampliata nel suo raggio d’azione dal 1930 al 1998)[80] a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 683/86 al sistema generale delle misure di sicurezza vede venir meno il loro originario profilo di automatismo che in passato le caratterizzava. Inoltre la valutazione della pericolosità sociale del soggetto attinto dal provvedimento espulsivo va fatta ora in concreto dal giudice sulla base dei parametri fissati dal 113 cp, escludendosi in tal modo quella presunzione legale di pericolosità prevista in origine dal codice Rocco.

 

Per quanto riguarda le espulsioni amministrative se i mezzi di tutela giurisdizionale cui poteva ricorrere lo straniero in origine erano dubbi, in assenza di specifiche disposizioni normative in proposito, con l’avvento della Costituzione il legislatore ha dovuto adeguare la materia ai principi di tutela ex art. 24 e 13.

 

Avverso le espulsioni di competenza prefettizia negli ultimi anni è stato ammesso il ricorso giurisdizionale in un primo momento davanti il TAR (l. 39/90), poi davanti al giudice ordinario (l 40/98) e infine davanti al giudice di pace (189/02).[81] Tratto caratteristico in tale ambito è stato il progressivo affievolirsi degli strumenti di tutela in quanto, mentre con la legge 30/90 era consentito richiedere la sospensiva cautelare del provvedimento di espulsione,  la legge 189/02 ha invece previsto una immediata esecutività del provvedimento medesimo che, infatti, può essere notificato allo straniero contestualmente alla sua esecuzione anche in presenza di gravame o impugnativa da parte dell’interessato.  

 

Il ruolo di centralità, anche se non di esclusività[82], assolto dalla espulsione nel governo delle irregolarità relative alla violazione di norme connesse all’ingresso e soggiorno dello straniero ha determinato il legislatore negli ultimi anni a concentrare l’attenzione, probabilmente in modo unilaterale e riduzionistico, sul profilo della esecutività del provvedimento espulsivo. Da un lato infatti, l’espulsione mediante accompagnamento coattivo alla frontiera diviene la regola, dall’altro vengono introdotte nuove fattispecie di reato, ovvero si inaspriscono le pene di reati già esistenti collegati alla espulsione.

 

Il risultato finale in materia è per molteplici aspetti un vero e proprio diritto speciale per gli stranieri che ha provocato una forte dialettica tra Corte Costituzionale e legislatore alla ricerca di un equilibrio (per ora instabile) tra le esigenze di sicurezza e ordine pubblico e quelle di garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo. E’di tutta evidenza, la presenza di distorsioni nel complessivo governo dei flussi migratori, in quanto negli ultimi anni, mentre si sono inasprite le norme contro l’immigrazione clandestina, si è fatto ricorso al contempo a frequenti sanatorie. L’ultimo di tali provvedimenti nel 2002 ha evidenziato come la “sanatoria” è da tempo lo strumento “ordinario” più rilevante di regolazione adottato nel sistema italiano del “diritto degli stranieri” per consentire un soggiorno regolare sul territorio nazionale agli stranieri extracomunitari”.[83]

 

  

 

L’attuale maggioranza di centro-sinistra, con la recente legge delega avente ad oggetto modifiche della legge Bossi-Fini intende ridisegnare per molti aspetti il sistema di allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato, assegnando alla espulsione un ruolo di extrema ratio all’interno dell’ordinamento.

 

Il disegno di legge contiene in primo luogo una revisione della disciplina dell’allontanamento che viene in effetti rapportata alla gravità delle violazioni commesse e alla effettiva pericolosità dello straniero, con possibilità di sospensione dell’esecuzione del provvedimento di allontanamento per gravi motivi.

 

In secondo luogo si aggiunge una previsione di modifica del sistema sanzionatorio  in tema di reati collegati all’espulsione riconducendo lo stesso ai principi del codice penale e di procedura penale,e introducendo meccanismi deterrenti graduali in relazione alla gravità e reiterazione delle violazioni e ai motivi dell’espulsione, eliminandosi in tal modo i tratti di specialità della attuale disciplina di dubbia costituzionalità.

 

 Uno dei problemi tecnici che pone maggiori difficoltà all’Amministrazione è quello relativo alla identificazione dello straniero non in regola con le norme sull’ingresso. A tal proposito si vuole da un lato incentivare le forme di collaborazione con lo straniero, configurando meccanismi premiali che incidono sulla riduzione temporale del divieto di reingresso, e dall’altro istituire forme di rimpatrio volontario e assistito alle quali potranno altresì accedere gli stranieri non espulsi che non hanno i mezzi per rientrare nel paese d’origine. La legge delega prevede inoltre la introduzione di procedure per consentire l’identificazione dello straniero che si trovi in carcere al fine di evitare un successivo trattenimento nei CPT.  E’ infine stabilito un ritorno della competenza giurisdizionale in materia di espulsione al giudice ordinario, in composizione monocratica, in considerazione della forte incidenza della normativa in esame sui diritti fondamentali della persona.

 

 

 

 

8 dicembre 2007


[1] La norma in questione era l’evidente riflesso di un momento storico nel quale l’Italia si presentava la come un Paese caratterizzato da forti processi migratori ed esprimeva la consapevolezza dei politici dell’epoca che il riconoscimento di pieni diritti agli immigrati avrebbe potuto favorire il riconoscimento di eguali diritti agli italiani all’estero.

 

[2] La legge di p.s. è del 20.3.1865 n. 2248 all.B)

 

[3] L’autorizzazione del Ministro era prevista all’art. 86 regolamento di attuazione della legge di p.s.-Regio decreto 18.5.1865 n. 2336.

 

[4] F.P. Contuzzi, Espulsione di stranieri, in Digesto Italiano Vol XI, 1895-1898, pag 1015. La circolare del Ministero dell’Interno 14.10.1885 prevedeva che in caso di arresto o spontanea presentazione dello straniero attinto dal provvedimento di espulsione, gli ufficiali di p.s. dovevano verificare se la espulsione era avvenuta per motivi di sicurezza pubblica, o per effetto di sentenza di un magistrato e, a seconda dei casi denunciarlo all’Autorità giudiziaria per la pena prevista dall’art. 117 delle leggi di p.s o dall’art 439 del cod. pen.

 

[5] I. Gjergji, Il trattenimento dello straniero in attesa di espulsione: una “terra di nessuno” tra ordine giuridico e fatto politico,in-http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2006/novembre/art-gjergji-trattenimento.pdf., pag. 4.

 

[6] G.Sirianni, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999 pag. 10.

 

[7] Da notare come la disciplina dell’epoca, che si era ispirata alla legislazione francese la quale prevedeva un trattamento particolare per gli stranieri domiciliati, non faceva alcuna distinzione nel trattamento tra stranieri. Ciò appariva ad alcuni poco ragionevole. “Credo che qualche guarentigia doveva accordarsi allo straniero che da qualche tempo esplica tutta la sua attività nel regno; e garanzie ed eccezioni dovevano farsi per colui che considera l’Italia come patria sua, per essere nato da genitori domiciliati nel regno, e per quegli che vi hanno sposato una donna regnicola e ne ebbe figli; ma la legge è muta a proposito e dimostra in ciò un inutile severità” vedi, G.Guidi Espulsione, repulsione, internamento degli stranieri, in Enciclopedia Giuridica, 1911, pag. 379

 

[8] Se il Prefetto non riteneva opportuno emanare il provvedimento espulsivo allora ne riferiva al Ministro dell’Interno al quale spettava la decisione finale e, se del caso ordinare allo stesso Prefetto la espulsione.

 

[9] Ad esempio G.Guidi, op. cit.

 

[10] G.Guidi,  op cit, pag 390

 

[11] Le circolari si occupavano ad esempio degli stranieri trovati sul territorio privi di passaporto, della problematica della loro identificazione, degli eventuali interrogatori da eseguirsi, delle modalità della espulsione verso gli Stati confinanti etc.

 

[12] In particolare l’Istituto di diritto internazionale nella sezione di Ginevra del 1892 proponeva che “fosse riconosciuto ad ogni individuo espulso il diritto di ricorrere ad un’Alta Corte giudiziaria od amministrativa, giudicante con piena indipendenza dal governo”. In F.P. Contuzzi, op cit, pag 1031 il quale tra l’altro propendeva anche per le sospensione del decreto in caso di proposizione di ricorso fatti salvi casi urgenti.

 

[13] Cfr G.Guidi, op cit  Si ammetteva altresì che lo straniero espulso potesse rivolgersi all’agente diplomatico o consolare della sua nazione, al fine di chiedere un intervento che consentisse alle autorità locali di rivedere la posizione dello straniero.

[14] G. Sirianni, op. cit. pag. 11

[15] art. 152, 2° Tulps e 271 regolamento di attuazione.

[16] I. Gjergji, Il trattenimento, cit, pag 8

[17] G. Siriani, op cit. pag 85

 

[18] Corte Costituzionale sentenza n. 120/67. Numerose sono le sentenze che si esprimono sul tema dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento allo straniero come: il diritto al proprio decoro, onore, rispettabilità, riservatezza, reputazione (sent. n. 38/73); il diritto di segreto nella corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (sent. nn. 77/72 e 120/77); libertà di manifestazione del pensiero, anche con riguardo alle opinioni politiche (sent. nn.122/70 e 168/71); i diritti della famiglia e il diritto a contrarre matrimonio (sent. 181/76 e 27/69); libertà di professione religiosa ( sent.nn. 14/73 e 188/75); diritto di difesa (sent. nn. 11/56, 29/62, 98/65, 37/69, 122/70, 11/71, 177/74,125/79). Cfr G. D’Orazio,voce Straniero (condizione giuridica dello) diritto costituzionale in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma.

 

[19] Corte Costituzionale sent. n. 104/69

 

[20] Corte Costituzionale sent.n.104/69

 

[21] Corte Costituzionale sent n.244/74

 

[22] Corte Costituzionale sent n.46/77

 

[23] G. Siriani, op. cit. pag 48

 

[24] Il 1973, in particolare è l’anno in cui si registra per la prima volta un saldo migratorio attivo.

 

[25] Cfr.E. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, il Mulino, Bologna, sec. ed 2006, pag 72.

 

[26] E’ stato notato come i cittadini immigrati saltano agli onori del palcoscenico massmediale secondo una modalità antitetica cioè: o quando sono oggetto di soprusi e discriminazioni razziste oppure quando vengono coinvolti in episodi di miro o macro criminalità. Vedi la ricerca del Censis 2002, Tuning into diversity,Immigrati e minoranze Etniche nei Media, in http://www.multicultural.net/tuning_results.htm

 

[27] Grande emotività provocò l’uccisone, per mano di alcuni balordi, di Jerry Essen Masslo, rifugiato politico sudafricano, che lavorava a Villa Literno, ciò determinò un vasto movimento dell’opinione pubblica a pronunciarsi contro l’insofferenza a sfondo razzista.

 

[28] Vengono previsti decreti annuali per i flussi di ingresso degli immigrati per motivi di lavoro. Da notare come la legge del 1986 prevedeva un modello regolativo degli ingressi dei lavoratori basato sull’incontro puntuale e preventivo della domanda interna e offerta immigrata del lavoro, fatto salvo in ogni caso l’accertamento di indisponibilità di lavoratori italiani e comunitari. Con la legge del 90 invece si tralascia un meccanismo di tale tipo in favore di un gestione del fenomeno immigratorio secondo indirizzi politici. Cfr.G. Bascherini op. cit., pag 3

 

[29] La legge Martelli abroga gli art. 142,143,145,146,150,152 del tulps, nonché gli articoli 262,263,264,267 del relativo regolamento di attuazione.

 

[30] In particolare si poneva il problema della qualificazione della ricevuta rilasciata dalla questure a seguito di dichiarazione di soggiorno resa dalla straniero al suo ingesso, qualora a norma dell’art. 263 del regolamento di p.s. nulla ostasse alla sua presenza nello Stato. Tale ricevuta era considerata alla stregua di un permesso di soggiorno revocabile in ogni tempo. In tal modo la posizione dello straniero diveniva del tutto precaria in quanto questi “poteva essere rimpatriato con foglio di via, anche nel caso in cui non sussistessero le condizioni richiesta per l’espulsione, sulla base di una valutazione di indesiderabilità svincolata da qualsiasi parametro normativo”, cfr Sirianni, op. cit. pag. 45. 

 

[31] G. Bascherini, op cit. pag. 2

[32] Idem, pag 93.

[33] S. Centonze , cit pag 140. Da notare come le norme sul procedimento amministrativo di cui alla 241/90, come ad esempio la notifica dell’avvio dl procedimento al destinatario del provvedimento finale (art.7) non sono considerate applicabili ai provvedimenti espulsivi data l’esigenza di celerità e speditezza che li caratterizza. (cfr Cass. 15.10.03 n. 15390) 

 

[34] Vedi Cassazione sentenza del 16.06.04 n. 11321

 

[35] Cassazione 16.06.04 n. 11321.

 

[36] Corte cost. 129/95. L’alternativa era quella di considerare tale fattispecie, come espulsione amministrativa alla stessa stregua di quella prevista dal Tulps per gli stranieri che commettevano delitti, ma ovviamente con una portata più limitata in quanto circoscritta ai reati ex 380 1° e 2° del c.p.p.

 

[37] G. Sirianni, op cit pag. 86

 

[38] Caputo, Espulsione e detenzione amministrativa degli stranieri in Questione Giustizia n. 3/99 p. 425.

 

[39] Vedi Corte Costituzionale sentenza n. 198/00

 

[40] Altro limite presente nell’ordinamento e derivante dalle norme internazionali è quello relativo al divieto delle espulsioni collettive previsto dall’art. 4 Protocollo n. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ratificato e reso esecutivo in Italia con DPR 14 aprile 1982 n. 217.

[41] G. Siriani cit, pag 68.

[42] G. Bscherini, op. cit, pag. 8

 

[43] E. Pugliese, op cit. pag 130.

 

[44] G. Bascherini, op cit, pag. 6

 

[45] L’espulsione in questione è applicabile su richiesta dell’interessato ( o suo difensore), ai cittadini extracomunitari sottoposti a custodia cautelare per uno o più delitti diversi da quelli indicati dall’art. 275, 3°, c.p.p. ovvero condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena (anche per la parte residua da espiare) non superiore a tre anni di reclusione.

 

[46] Corte. Cost. sent. 62/94

 

[47] G. Bascherini, cit. pag. 10

 

[48] B. Nascimbene, in Diritto degli Stranieri, AAVV. a cura di B. Nacimbene, Cedam, Padova, 2000, pag.XXXV.

 

[49] E. Pugliese, op. cit. pag 130

 

[50] P. Bonetti, Diritto degli stranieri, cit pag 17

 

[51] La norma in questione, come visto in precedenza prevedeva l’espulsione per lo straniero responsabile, direttamente o per interposta persona, in Italia o all’estero di violazionidi disposizioni fiscali italiane o delle norme sulla tutela del patrimonio artistico o in materia di intermediazione di manodopera nonché di sfruttamento della prostituzione o del reato di violenza carnale o comunque di delitti contro la libertà sessuale.

 

[52] Corte Costituzionale ord. 485/00.

 

[53] Cfr S. Centonze, L’espulsione dello straniero, Cedam, Padova 2006, pag 108, che a titolo esemplificativo dei mezzi di prova indica la dichiarazione di ospitalità o di alloggio resa all’autorità di ps ai sensi dell’art. 7 del T.U. 286/98, i biglietti convalidati di viaggio aereo, ferroviario e marittimo, i documenti attestanti l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, dichiarazioni testimoniali.

 

[54] La possibilità di reingresso era legata, come visto in precedenza, ad una specifica autorizzazione ministeriale.

 

[55] La corte cost. n. 161/00 ha affermato che la previsione di un breve termine per la decisone definitiva sul ricorso giustifica la mancata previsione della misura sospensiva.

[56] P. Morozzo della Rocca,op. cit pag. 30

[57] Cfr. ordinanza della Corte Costituzionale n. 414/01

 

[58] G. Bascherini, op. cit. pag. 8

 

[59] L’art. 14 della legge 40/98 che disciplina la espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione così recita: “il giudice nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o nell’applicare la pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’art. 13, comma 2, quando ritiene di dover irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 163 del codice penale né le cause ostative indicate nell’art. 14, comma 1, del presente testo unico, può sostituire la medesima pena con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni”. Sulla espulsione come sanzione sostitutiva alla detenzione si veda A. Caputo, Immigrazione (dir.proc.pen.) in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, aggiornamento del 2004.

 

[60] Vedi corte cost, ordinanza n. 369/99 ove tra l’altro si afferma che la normativa richiama ai fini della applicabilità della espulsione come sanzione alternativa alla detenzione le condizioni che costituiscono il presupposto per la espulsione amministrativa, per cui risulta “evidente la sostanziale sovrapposizione fra le due misure e la conseguente necessità di una loro armonizzazione sistematica”  

 

[61] La Corte Costituzionale con sentenza n. 376/00 ha esteso siffatto divieto di espulsione anche nei confronti del marito irregolare della donna in stato di gravidanza o che abbia partorito da 6 mesi.

 

[62] Cfr. P. Bonetti, Diritto degli stranieri, op cit. pag 466.

 

[63] B. Nascimbene, Nuove norme in materia di immigrazione. Legge Bossi-Fini: perplessità e critiche, in Corriere Giuridico, n. 4/03, pag. 532

 

[64] B. Nascimbene, Diritto cit, pag. XLI

 

[65] Da notare che il legislatore non prevede espressamente la modalità di esecuzione delle espulsioni misure di sicurezza. Si propende per una interpretazione analogica per cui l’accompagnamento coattivo alla frontiera è applicabile anche in tali casi, anche se non manca chi afferma come la riserva assoluta di legge in materia di provvedimenti limitativi della libertà personale e di misure di sicurezza impedirebbe interpretazioni analogiche. P. Bonetti, in Diritto degli Stranieri, AAVV. a cura di B. Nascimbene, Cedam, Padova, 2000, pag. 488.

 

[66] P. Bonetti, in Diritto degli Stranieri, cit, pag. 485.

[67] Corte Costituzionale ord. n. 226/04.

[68] A. Caputo, Immigrazione cit, pag 11. In ragione della finalità di tale fattispecie la giurisprudenza di legittimità ha non ritenuto applicabile la espulsione in questione a soggetti che si trovano ad espiare le pene con misure alternative quali gli arresti domiciliari, mentre è stata ritenuta applicabile per i soggetti detenuti in semilibertà perché quest’ultima misura comporta la permanenza del condannato in un istituto penitenziario, sebbene limitatamente a certe orari, ragion per cui la espulsione assolve alla sua funzione di svuotamento delle carceri. Vedi Cass. Sez. I 31.10.05 n. 39781.

 

[69] Da notare che la norma prevede la revoca del permesso di soggiorno dello straniero per cui ciò avrebbe determinato l’applicazione della misura espulsiva ex art. 13 comma 2, mentre il legislatore ha preferito prevedere una fattispecie autonoma di espulsione. Cfr, S. Centonze, L’espulsione dello straniero, Cedam, Padova 2006, pag 115. Rimane dubbio se la revoca del permesso di soggiorno si configuri come provvedimento amministrativo vincolato, o come pena accessoria.

 

[70] In effetti mentre l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato è un istituto che incide sulla libertà di circolazione e soggiorno, l’istituto dell’accompagnamento coattivo alla frontiera è stato considerato strumento di carattere coercitivo e come tale assoggettato al rispetto delle garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione.

 

[71] Con la sentenza 105/01, interpretativa di rigetto, non venne direttamente intaccato l’istituto dell’accompagnamento corrivo, ma il legislatore per evitare successive pronunce di incostituzionalità con legge 7.1.02 n. 106 attribuì all’autorità giudiziaria il potere di convalida del provvedimento che dispone l’accompagnamento alla frontiera disponendo però della immediata esecutività del medesimo. La successiva pronuncia della Corte n. 222/04 ha comportato un nuovo intervento legislativo in materia.

 

[72] D.L. 51/02 convertito con modificazioni nella l. n. 106/2002.

 

[73] Elisa Zambelli, Lo straniero di fronte all’esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione: principi costituzionali e discutibili scelte legislative in Le istituzioni del Federalismo, I, 2006, Maggioli.

 

[74] Si nota come non sia chiaro se il Ministro possa delegare al Prefetto solo il compimento dell’atto finale dell’iter procedimentale, ovvero tutto l’intero procedimento compresa la fase di acquisizione di fatti e notizie e valutazione conseguente. Per una interpretazione restrittiva del contenuto della delega e del relativo potere discrezionale del Prefetto si veda S. Centonze op cit. pag 154

 

[75] Per la Corte l’arresto obbligatorio non poteva considerarsi funzionale nemmeno ad assicurare l’espulsione in quanto le legge prevede che il Questore possa disporre il trattenimento nel CPT che è misura autonoma rispetto all’arresto.

[76] S. Centonze, op cit pag 45

[77] Corte Costituzionale sent. n. 34/95

 

[78] Corte Costituzionale n. 22/07

[79]

[80] Il codice Rocco prevede le espulsioni per le ipotesi di condanna alla reclusione non inferiore a dieci anni (art. 235 c.p.) ovvero nei casi di delitti che offendono la personalità dello stato (art. 312 c.p.). La legge Martelli (39/90), prevede l’espulsione per gli stranieri che abbiano riportato condanna per i delitti previsti dal 380 commi 1° e 2°del c.p.p; infine la legge 40/98 amplia la precedente previsione normativa, prevedendo oltre i delitti di cui al 380 commi 1° e 2°del c.p.p anche quelli di cui al 381 c.p.p. Attualmente queste ipotesi di espulsione misura di sicurezza sono tutte in vigore.

 

[81] La competenza in materia di ricorso avverso la espulsione ministeriale è stata invece sempre del giudice amministrativo.

 

[82] Cfr P. Bonetti, in Diritto degli Stranieri op cit, pag 439, per il quale non ha fondamento giuridico l’affermazione secondo la quale la vigente legislazione affida il governo dell’irregolarità in via esclusiva allo strumento dell’espulsione o esclude ogni forma di regolarizzazione permanente dello straniero in condizione irregolare (il riferimento è alle tesi di L.Pepino, Centri di detenzione ed espulsioni (irrazionalità del sistema ed alternative possibili in Diritto immigrazione e cittadinanza, n. 2/2000) 

 

[83] P. Bonetti, Diritto degli Stranieri, cit, pag 42