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Eversione democratica e strumenti di difesa civile nell'Italia degli anni 70

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            Gli anni di piombo sono stati una delle pagine più tragiche della recente storia italiana; si è combattuta una guerra civile dichiarata da un solo schieramento, eppure capace di produrre una sconfinata serie di lutti. Il periodo in esame, efficacemente definito da Sergio Zavoli “la notte della Repubblica”, prese il via il 12 Dicembre 1969 con la strage di piazza Fontana a Milano; la bomba della Banca dell’Agricoltura, infatti, produsse effetti capaci di andare ben oltre quelli, già angoscianti, realizzatisi nei locali oggetto dell’esplosione. Il Paese, per prima cosa, si è ritrovato capovolto in un clima di esasperata contrapposizione ideologica animata da frange tutto sommato minoritarie della popolazione.

 

Le indagini, a lungo contraddittorie, incerte, ostacolate da avversari interni alla stessa Repubblica, videro a pochi giorni di distanza il realizzarsi di un altro evento nefasto: la morte dell’anarchico Pinelli, seguita anch’essa da mille dubbi  e altrettanti, velenosi, sospetti. Ma anche questa tragedia, purtroppo, aveva in sé il destino di porsi come causa diretta di altro dolore: la morte del commissario Luigi Calabresi, assassinato da un gruppo di terroristi che in lui vedevano, senza prove, senza riscontri, ma comunque senza incertezze, il responsabile unico della morte di Pinelli. Forse, questo straziante triangolo, piazza Fontana-Pinelli-Calabresi, può essere il simbolo della follia di quegli anni: tragedie dalle quali si sembrava non riuscire mai ad uscire, capaci solo di rinnovare se stesse nella produzione di nuovo dolore.

Le indagini sulla strage di Milano, del resto, videro presto stagliarsi la minacciosa ombra dell’eversione neo-fascista, caparbiamente proiettata verso quella strategia della tensione che, per il tramite del terrore in cui era intenzione far precipitare il Paese intero, doveva concludersi con l’instaurazione di un regime autoritario che tenesse l’Italia al riparo da ogni possibile avanzata della minaccia comunista. Gli attacchi provenienti da tale direzione convinsero i militanti dell’estrema sinistra dell’attualità del rischio della deriva autoritaria, spingendoli, raccontano, a una decisa reazione. Iniziò allora la pagina dell’eversione rossa, caratterizzata da propri strumenti di lotta, generalmente distinti da quelli utilizzati dai neofascisti, eppure a questi accomunati dall’identico obiettivo di sovvertire illegalmente l’ordine costituzionale. Là ove a destra si ricorreva generalmente alla bomba destinata a colpire nel mucchio, a sinistra si sceglievano con cura le vittime designate, sempre considerate espressive dell’appartenenza alle istituzioni dello Stato, o comunque della collaborazione con esse, e dunque colpevoli di difendere l’assetto istituzionale che con tanta ferocia si era deciso combattere. In tale ottica bersaglio dei terroristi non furono solo membri delle forze dell’ordine, dirigenti e proprietari industriali, politici o magistrati, obiettivi tutto sommato immaginabili, ma col tempo anche sindacalisti, operai, giornalisti, burocrati con ruoli secondari e comunque di scarsa visibilità. La lotta contro lo Stato si estese dunque a tutti i suoi settori, anche quelli fino a quel momento considerati espressivi delle tradizionali istanze della sinistra; chi un attimo prima era annoverato fra gli amici del proletariato, poco dopo era additato come un nemico, forse ancora più minaccioso di quelli storici, perché responsabile dell’abbandono delle prospettiva rivoluzionaria.

 

Con il tempo gli opposti schieramenti si delinearono con relativa chiarezza: gli estremisti di destra, da un lato, decisi a porre le basi per un governo autoritario; i militanti dell’eversione di sinistra, dall’altro, ugualmente determinati nel combattere un sistema che detestavano, attenti a far naufragare ogni prospettiva di avvicinamento democratico fra DC e PCI; nel mezzo, lo Stato, chiamato a una sfida tanto più delicata quanto più aumentava l’elenco delle sue vittime.

 

Proprio dalla cronistoria degli attentati, delle imprese propagandistiche, dei sequestri, dei ferimenti e degli omicidi, si è deciso di partire per illustrare il presente lavoro, nella convinzione che una sia pur sommaria descrizione del crescendo di violenza di quegli anni fosse indispensabile per far comprendere il clima in cui versava il Paese. La violenza era nell’aria, faceva quasi parte della quotidianità di tante città italiane; si era impadronita non solo delle cronache, ma anche delle strade e delle piazze, delle fabbriche e delle università, costringendo gli italiani a preoccuparsene con costanza e, col tempo, a difendersene. In tale fattore, probabilmente, può rintracciarsi la causa della sconfitta del terrorismo; brigatisti e neofascisti fecero del popolo, nel cui interesse, a parole, agivano, la vittima delle loro azioni. La morte che disseminavano non era più affare solo dei bersagli prescelti e delle loro famiglie, ma sempre più spesso e con più forza diventava lutto di un Paese intero, col tempo non più disposto a vivere nel terrore. Ne sono esempio l’omicidio dell’operaio Rossa, per le BR colpevole di aver denunciato un militante, e il sequestro Moro; le fine tragica di questi due uomini, così diversi per estrazione sociale, cultura, ruolo, ebbe come effetto comune la condivisione nazionale del dolore e, a seguire, la ferma volontà di isolare i terroristi.

 

Con il tempo, dunque, si riuscì a porre rimedio agli errori che inizialmente erano stati commessi nella lotta contro le opposte eversioni. Già si è detto della connivenza fra settori deviati dei servizi segreti italiani e militanti dell’estrema destra, con ogni probabilità complici, almeno in un primo momento, nella strategia della tensione descritta in precedenza. Ma numerosi sospetti riguardano anche i rapporti fra servizi segreti italiani e stranieri e terroristi dell’estrema sinistra; sono rapporti in gran parte ancora oscuri, sulla cui effettiva portata si sono sommate nel tempo diverse teorie. Si è parlato della strategia del c.d. “lasciar fare”, ossia della lucida volontà di parte dei nostri servizi, sull’inizio degli anni Settanta, di far sopravvivere le BR, ritenute comunque funzionali ad orientare l’elettorato verso posizioni conservatrici; si è adombrata la possibilità di una influenza internazionale, interessata a mantenere l’Italia in un clima instabile e ad ostacolarne lo sviluppo economico e sociale; si è addirittura pensato a una regia unica, che da lontano disegnava le trame degli opposti estremismi, dunque uniti non solo dalla violenza, ma prima ancora dalla stessa leadership. Il peso dei “segreti” nella ricostruzione degli anni di piombo è oggetto di apposita trattazione nel presente lavoro, per la convinzione che molte pagine relative a quegli anni debbano ancora essere scritte; con l’avvertenza, già anticipata e del resto implicita nel concetto di “segreto”, che le certezze in tale settore sono veramente poche.

 
 

Sul versante opposto ai segreti si ha tutto ciò che è di dominio pubblico, conosciuto o almeno conoscibile; si è allora deciso di esaminare il mondo della stampa e dell’opinione pubblica in generale, nel tentativo di dare conto di quali fossero le convinzioni di giornalisti e intellettuali, e di come queste fossero diffuse ai lettori. Si è così scoperto che anche sulla carta stampata si sono visti gravi errori, di sottovalutazione e leggerezza forse, ma anche di conformismo, superficialità, a momenti viltà. Le Brigate Rosse non esistevano, o comunque erano un equivoco cromatico; a sinistra non si sparava, né tanto meno si uccideva; ergo, dietro quelle sigle si nascondevano inconfessabili tentativi di delegittimazione politica, gli stessi propositi di deriva autoritaria che spingevano i neofascisti a collocare bombe. Le BR erano “sedicenti”, una “favola sciocca per bambini”, un’invenzione insomma, e neanche originale; di conseguenza la teoria degli opposti estremismi era una bufala, fumo negli occhi dell’opinione pubblica. Quanto tale visione fosse sbagliata venne purtroppo confermato, negli anni, dai fatti; rimase sicuramente il ritardo con cui certa intellighenzia comprese i reali contorni del fenomeno e, dunque, ne informò l’opinione pubblica. Ma rimasero, purtroppo, anche le parole, anch’esse di piombo, con cui certi fatti vennero descritti, a volte persino inventati: è la storia, già citata, di Luigi Calabresi, accusato, processato e condannato da certa stampa, mentre chi in uno Stato di diritto accusa, processa e, nel caso, condanna, la magistratura, lo aveva assolto.

 

            Si sono dunque scelti due settori generalmente tanto distanti, quello dei segreti e di chi con essi lavora e quello della pubblica opinione, ossia dell’informazione e della fabbrica delle idee, accomunati in quegli anni da meriti e colpe. Colpe, nella misura in cui per leggerezza o su mandato sottovalutarono ciò che cresceva sotto i loro occhi; meriti, perché riuscirono infine a comprendere l’esatta portata del nemico, denunciandolo, combattendolo e sconfiggendolo. Lo Stato, in sostanza, vinse la propria battaglia, perché riuscì col tempo a compattarsi in ogni sua componente, non solo istituzionale; classe politica, forze dell’ordine, sindacati e cittadinanza fecero, per intero, il proprio dovere. I terroristi rimasero soli, sempre meno protetti dalle connivenze che inizialmente li avevano circondati; soli, a inseguire una “rivoluzione senza popolo”.

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1 ottobre 2007